Ultimo volo. Orazione civile per Ustica


Utimo volo

1. Ouverture
2. Monologo primo. Volare è un’arte


In fondo volare è un’arte. E quando le correnti ascensionali sostengono le rapide intese verso le alture, allora si raggiunge il sublime che è disegnato nel cielo: quel vortice di immenso che anche le anime antiche hanno colorato di un intatto mistero. Sarei ipocrita se non confessassi di avere sempre invidiato nei volatili la libertà di azione. La possibilità di improvvisare piroette e giravolte, di giocare coi flutti d’aria con la confidenza sfacciata del fuoriclasse.
Io invece, dall’alto dei miei diecimila metri, osservavo gli uccelli sul Pacifico e mi chiedevo se mai, un giorno, sarei riuscito a farmeli amici. Loro, che al mio passaggio si tenevano larghi e rallentavano attoniti all’ansimare dei miei polmoni di acciaio.
Ma tutto questo è solo un ricordo. Sono nato negli anni sessanta in un paese molto lontano da qui. Le mie rotte d’allora erano quelle che collegavano, per conto di una linea americana, le isole Hawaii. Lavoro duro di routine. Trasportavo pesce destinato ai mercati ittici di quell’arcipelago appena divenuto l’ennesima e ultima stelletta sulla bandiera degli Stati Uniti d’America.
A quel tempo non conoscevo il traffico spasmodico e nervoso dei vostri aeroporti europei, le attese in fila per un decollo in gravoso ritardo. Nulla sapevo dei cieli intasati di questo pezzo di pianeta che si chiama Europa. E poi, soprattutto, quasi niente sapevo degli umani. Ne ospitavo pochissimi a bordo. Solo i piloti che mi guidavano a occhi chiusi fra gli spazi aperti del cielo sull’oceano.
Poi, un bel giorno, la mia vita cambiò. Andai a vivere nel vecchio continente e presi servizio presso la compagnia Itavia, nella penisola italiana. Era l’inizio degli anni settanta e quando arrivai scoprii un paese in forte trasformazione, uno sviluppo di vita e di tecnologia che un giorno o l’altro – lo sapevo – mi avrebbe messo fuorigioco. Ma ero giovane allora e non temevo la concorrenza perché la mia fibra era fortissima e io ero stato creato per lavorare di giorno e di notte. Anche le intemperie o le turbolenze non mi hanno mai preoccupato. Qualche apprensione, invece, specie in principio, mi veniva dall’intenso traffico, dal continuo incrociare quei miei fratelli che immaginavo stressati da tanta frenesia. Ma ben presto mi ci abituai, grazie anche alla serenità che mi veniva dal personale di bordo, da quegli umani con cui condividevo il lavoro. Presi a percorrere instancabile quei corridoi di cielo che univano le punte estreme di questo paese, da nord a sud, dalle isole alle città industriali appena sotto la larga arcata di montagne che chiamate Alpi. Così, in poco tempo, ospitai decine di migliaia di passeggeri e finii con l’ignorare lo stress di questo mondo nevrotico e sempre all’apparente ricerca di chissà che cosa.
Fino al 27 giugno del 1980 avevo accumulato la bellezza di 9000 decolli e altrettanti atterraggi. 9000 voli tutti impressi nella mia memoria di pachiderma dei cieli. Quel giorno lo ricordo molto bene: partimmo con circa due ore di ritardo, ma non certo per colpa mia. Anzi, contavo di recuperare qualche minuto nella speranza che il pilota mi desse il benestare per un’accelerata in aerovia. Il sole era scomparso da poco alla mia destra e con lo sguardo osservavo altri aerei che volavano lontano. Altri ancora, invece, sembravano volerci sfiorare per quanto osassero accostarsi a noi. Strano, pensai. Aerei civili e militari, di varie nazionalità, sembravano addensarsi rapidi in un vorticoso andirivieni di mosse incomprensibili, Cosa mai potrà accadere? – mi chiesi. E mi abbandonai al vento lieve di quella sera di prima estate di cui mai avrei conosciuto il nome.

3. Canzone prima
4. Monologo secondo. Negli abissi


Visto da questi abissi, il mare è un’altra cosa. Non ci sono pesci colorati ad accarezzare i resti della mia carcassa né apparenti forme di vita; non si odono le voci dei bagnanti né i motori delle grandi navi, e neanche i misteriosi sottomarini arrivano qui. Ma si avverte sempre un soffio d’esistenza nella percezione di ogni organismo unicellulare, di ogni alga informe.
Talvolta, dal fondo sabbioso, un improvviso flutto d’aria calda ribadisce che ovunque, anche nei luoghi più remoti di questo pianeta, le leggi della vita sono sempre più forti di ogni digressione nichilista.
Da anni mi trovo quaggiù, ma l’attesa non mi ferisce perché io sento che qualcosa o qualcuno verrà a tirarmi fuori. Mi trovo a circa 3800 metri di profondità, in un punto in cui la mia cecità è totale. Un luogo geografico ove i fondali del mare Tirreno digradano in picchiata come a cercare il centro della terra.
Che ironia della sorte.
Che gioco beffardo, per me, essere qui.
Abituato com’ero a guardare tutto dall’alto, a dominare il silenzio da quote e atmosfere immense, osservo ciò che posso, con queste membra dimesse, dal fondo di ogni fondale, dal suolo di ogni suolo, dal selciato esemplare e basico su cui tutto si regge.
Ora so cos’è il silenzio.
Non quello pieno d’aria e di luci in lontananza, né quello delle vette inarrivabili. Quel silenzio pieno di vento che taglia il crepuscolo e richiama la somma di ogni armonia, di ogni lamento geometrico, di ogni suono riverberato appena.
No. Qui il silenzio è assoluto. È un’iperbole impazzita che ritorce il vuoto del suo inutile replicarsi. Qui il silenzio è opaco e sordo come in una cella asettica dove niente sembra potevi accadere.
Ed è proprio questo che, più di ogni altra solitudine, mi angoscia.
L’annullamento dei ritmi del giorno e della notte, del loro raccontarsi con i suoni e con i colori della vita. Ma io esisto.
Io esisto perché devo… perché attendo in questa oscurità che arrivi un baluginio. Un fendente di luce amica che possa destarmi dal sonno in cui mi hanno costretto. E da questo silenzio che è un frastuono di voci e di grida per il mio grembo offeso e gravido.

5. Canzone seconda
6. Monologo terzo. Pratica di mare


Qualcuno mi ha portato qui.
Se alzo lo sguardo vedo un rettangolo di cielo pieno di alluminio e di plastiche verdastri. E attorno un involucro di metallo a sostenere ciò che di me è rimasto -le mie ali, la mia prua come un becco di rapace ormai démodé-, il mio corpo bianco e rosso ricomposto con una pazienza certosina e ogni frammento sfigurato è stato catalogato, numerato, esaminato, analizzato e montato in un allucinante puzzle.
Ogni tanto la gigantesca saracinesca di questo luogo polveroso si apre, si odono voci che parlano lingue diverse: l’italiano, l’inglese, il francese… Ma soprattutto si sente il mare. L’aria salmastra entra come un sotterfugio nei rari momenti di apertura di questo hangar, e mi fa capire quanto vicini siamo alla costa.
Mi hanno posto con la pancia a terra, ma dalla mia prospettiva vedo esattamente ogni cosa recuperata a più riprese dal fondo del mare: i bagagli dei miei passeggeri, i loro libri, le poltrone, i salvagente… Ci sono borse e scatole piene di oggetti, ci sono bambole e altri giocattoli, giornali, pezzi di legno e di lamiera di incerta provenienza, non ancora identificati nel quadro generale del mosaico che rappresento. Su ogni frammento un numero. Sopra ogni cifra un codice da interpretare.
Col passare degli anni, negli anfratti più remoti del mio corpo si sono annidati animali di ogni tipo: centinaia di insetti, di aracnidi, topi e ratti di ogni specie, ma anche serpenti, piccole e velenose vipere che si nascondono fra i miei tubi metallici ed escono a caccia quando i morsi della fame si fanno sentire.
Ma io, io non sono solo qui. Davanti a me c’è qualcun altro.
E talvolta mi chiedo se sia un caso che ci abbiano messi di fronte. Come a ribadire, nel gioco simbolico dei contrari, la nostra fatale e comune appartenenza, l’assurdità della vita, che nella somma algebrica dei suoi momenti ne evidenzia uno dichiarandolo mera essenza del suo significato. Il sommo sunto della sua ragion d’essere.
Noi ci siamo già incontrati una volta, fra le note di ben altra sinfonia, sotto un altro pezzo di cielo. Sotto gli occhi della tigre della quale presto avremmo sentito gli artigli.

7. Canzone terza
8. Monologo quarto. A tu per tu con il MIG


Fratello…
Io non nutro alcun rancore nei tuoi confronti.
Chiunque tu sia, per qualunque compito sia stato creato, qualsiasi intento nascondessi fra le tue rapide giravolte nei cieli, io semplicemente, non ti odio.
Lo so che non puoi parlare, che non puoi ascoltare.
Lo so che non hai coscienza alcuna.
Ma so che il destino ha voluto farci incontrare nell’attimo fatale che disegna il solco fra la vita e il suo contrario.
E se la tua sagoma ha sfiorato la mia, se il tuo profilo breve si è celato nel cono d’ombra del mio mantice di cavalli impazzito dal dolore e dalle ferite che solo un vigliacco poteva infliggermi. Ebbene, ironia della sorte, ora noi ci troviamo qui. Di nuovo. L’uno di fronte all’altro. Uniti per sempre da una storia che non è più soltanto la mia o la tua. E nemmeno delle ottantuno anime che da quel giorno io rappresento. No. Questa, oggi, è la storia di tutti.
È la storia di chi lavora, di chi viaggia, di chi studia, di chi si impegna e di chi si diverte; di chi opera alla luce del sole e di chi trama nel segreto di quattro mura. È storia che appartiene a tutti coloro che hanno inteso il mio e anche il tuo sacrificio. Ed è storia che si ripete idealmente ogni qualvolta un nostro fratello alato si leva al cielo, ogni volta che la sua rotta si profila nel quadrante luminoso del pannello di comando. Ogni volta che un viaggiatore si reca ignaro sulla soglia che lo separa dal vuoto.
Sarà così fino a quando coloro che sanno non decideranno di raccontare ciò che noi – io e te – abbiamo avuto le ventura di vivere sulla nostra pelle di metallo.
Fin quando la dignità di queste 81 anime – nonché quella del tuo pilota – sarà calpestata dalla menzogna e dal raggiro, noi sventoleremo le bandiere della memoria.
E se a te, fratello, non sarà dato modo, allora vorrà dire che sarò io a farlo per entrambi.
Ché per questo siamo stati chiamati a testimoniare. E, nell’oscurità dei vizi incomprensibili degli umani, a resistere.

9. Canzone quarta
10. Monologo quinto. Verso Bologna


La conosco questa strada. Quante volte l’ho dominata dall’alto delle mie rotte in aerovia?
Certo, è bizzarro percorrerla così… sul solco di questa striscia di nero asfalto, scortati da scatole di lamiere azzurre lampeggianti, senza una torre di controllo a autorizzarci il volo.
E anche se non vi sono radar a sorvegliare la nostra rotta, c’è tutto un mondo che sembra scrutarci sornione, con l’aria di chi sbircia da un buco della serratura.
Ecco, in questo momento mi sento come un ciclista in apnea, con le caviglie e i polpacci tesi in procinto di una fuga in salita… col pubblico ai lati che trattiene il fiato in gola certo che qualcosa di importante stia per accadere.
Ma è solo il mio ultimo viaggio.
Lasciato definitivamente il freddo container di una zona militare nei pressi del mare Tirreno, ove ho soggiornato a lungo, mi aspetta la mia nuova e ultima casa.
In quella città, Bologna, dove tutto ha avuto inizio.
Ma ora sono stanco, molto stanco. Sento il peso delle intemperie, della salsedine che mi ha trapassato le ossa per tanti anni.
Sento, a ogni sobbalzo del TIR sul selciato imperfetto di questa autostrada, ogni artrosi, ogni microfrattura, ogni lesione mal sanata.
Spero sarà accogliente la mia nuova dimora.
Che possa ospitarmi con grazia, magari elevato su un palco a soddisfare quel po’ di ridicola vanità che ogni velivolo, anche vecchio e malandato come me, possiede.
Per mostrare a tutti quale gioiello di aerodinamica e di tecnologia fui un tempo.
Il mio viaggio, intanto, continua e dall’alto Lazio passo le dolci colline che, attraverso l’Umbria, portano dritte alla bassa Toscana.
Come sono belle queste vallate e com’è strano vederle da così vicino…
Ho l’impressione che se allungassi le ali potrei persino toccarle.
Datemi il tempo per fissarle a mente. Ora. Prima che la pianura diradi i promontori a ogni curva e apra le sue porte all’orizzonte sull’Adriatico. Prima che la notte arrivi a nascondere i sogni fantasticati durante il giorno, quelli di cui mi nutro per assaporare un briciolo della perduta libertà.

11. Canzone quinta
12. Monologo sesto. Simulacro


Col tempo si diventa fatalisti e l’età della ragione si riduce ad un afflato obliquo, accennato sopra i residui segmenti della memoria.
Oggi ho soprattutto bisogno di sentirmi felice, di guardare avanti senza quel sorriso stranito da clown qualunque di un circo di periferia che si appresta all’ultimo numero, al termine di una lunga ma incerta carriera.
È così che mi penso: Un minareto a forma di velivolo assurto a scomodo portavoce di un popolo mai assentatosi veramente. Perché nelle mie lamiere v’è il concentrato materiale di ogni molecola, di ogni citoplasma, di ogni acido desossiribonucleico rubato alla vita.
Sono passate quindi 27 primavere da quell’infausto 27 giugno del 1980. E oggi contiamo l’anno 2007. Forse per fatalità o per un’oscura convergenza astrologica, ma in esso si cela l’essenza numerologica della cifra tre volte ripetuta.
Tre volte 27 – appunto –, che sommati ci danno 81. Come il numero delle anime che ho adottato a partire da quel giorno.
E se la cabala è un sunto di superiore conoscenza, il ricettacolo aritmetico del nostro essere qui, adesso, allora io, sì, mi sento felice.
Felice di ricordarvi ciò che mai più, in questo o in un qualunque altro paese della terra, dovrà accadere. Ma è giusto che sia io a parlare?
A puntare, con il mio verbo silente, l’indice contro la mano assassina?
È giusto che sia io a dare una risposta alle migliaia e migliaia di persone che da anni, sempre, chiedono solo un po’ di giustizia per amore della verità? E un po’ di verità per amore della giustizia?
Potrò mai sostituirmi alla voce forte e integra dell’uomo?
Dell’Uomo con la U maiuscola?
Di quell’essere al quale ho sempre donato i miei servigi, dal quale e per il quale sono stato creato?
No. Questo non rientra nel compito che mi è stato assegnato.
Io sono qua per amore.
Perché è per amore, e solo per quello, che mi hanno ricomposto in un mosaico di dolore e di passione.
Perché è per amore, e solo per quello, che mi hanno insegnato a parlare e a guardarvi negli occhi.
Perché è per amore, e solo per quello, che ho accettato l’idea di impersonare il simulacro che ora divento.

13. Canzone sesta
14. Finale

partecipazione di Manlio Sgalambro in Ultimo volo. Orazione civile per Ustica (libretto e musica di Pippo Pollina), Storie di note, 2007 [Bologna, 27 giugno 2007]

Precedente Il pessimismo della verità Successivo Nadia Boulanger e l'ethos della musica