Manlio Sgalambro

Ritratti

Il neikosofo di Lentini che da bambino giocava con le tibie degli antichi greci

Manlio Sgalambro è uno che a guardarlo ti chiedi se al posto della faccia non abbia piuttosto un foglio di giornale accartocciato. E non sono i quasi ottant’anni del pensatore a dichiararsi nelle sue rughe, ma un duemila e settecento anni di filosofia. Anche se lui si dice neikosofo, che vuol dire più o meno “della filosofia nemico”. È nato a Lentini, Sgalambro, nell’angolo di Sicilia protetto dallo sguardo dell’Etna dove un tempo vide la luce Gorgia il sofista. Nel Paese in cui prima della mafia germogliò l’arte del contraddire e che oggi passa invece per uno snodo ferroviario del siracusano. Da bambino il neikosofo si dilettava come tutti i fanciulli. Solo che, privo di giocattoli, lui, povero, ovviava alla meno peggio con le ossa degli antichi che trovava negli scavi di campagna a cielo aperto. Tibie, rotule e crani che scagliava addosso agli amichetti “come fossero ciottoli”.
Non che la passione per il concetto gli sia venuta a forza d’intrattenersi con gli scheletri della Magna Grecia. Filosofo senza filosofia, aspettò la sua folgorazione fino al 1943. Aspettò fino a che gli americani non avessero occupato la Sicilia, portando con sé pane, salume, cioccolata e un orrido slang. Aspettò fino a che, rimediata chissà come, non gli capitò tra le mani la coppia di volumi che gli cambiò la vita: Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Dopodiché per lui fu solo lettura e gioia e soliloquio fino a perdersi nelle radure della speculazione. Da quel momento l’aristocrazia della sofferenza fu la cifra del suo essere. E con essa la garbata e fulminante ironia mutuata dal filosofo tedesco. Sgalambro si allenò alla musica delle parole che sono lava e verseggiò la sua mancanza d’idoli. Si scoprì filosofo senza cattedra, che poi è la stigma dei ben nati cui la buona sorte risparmia il berciare assistito dallo stipendio statale. Si scoprì cattivo e duro e molesto nei suoi ragionamenti. Scrisse e inviò le sue torture intellettuali a un editore irregolare e famoso che s’innamorò di lui. La repubblica dei dotti lesse e si preoccupò, mentre lui continuava a pubblicare libri. Prima fu La morte del sole, poi vennero il Trattato dell’empietà e Anatol e altri a valanghe distillate con crudele sapienza. La sua è la saggezza di colui che sceglie l’etica della catastrofe e, novello Breton, esorta i colleghi a tenere sotto il cuscino una pistola che di tanto in tanto andrebbe pure usata in qualche modo. Il suo realismo lo portò e lo conduce anche oggi a dirsi antisociale, ma non senza vagheggiare un “comunismo metafisico”. La sua poesia gli ha fatto rischiare una biografia di Nietzsche per versi e voce in cui si è ritrovato più nietzscheano del grande Solitario. A forza di corrodere ha trovato che “la verità ci è contro” e che “l’eterna idea dell’uomo è il suo cadavere”. Difficile non amarlo senza cullare propositi omicidi… Difficile resistere alle sue cosmogonie infantili e dotte. Alle sue saette à la Cioran che fanno di lui un teologo a contrario. Alla sua passione per il gioco che anticipa la serietà preludendo alla di lei vittoria. Perché “nel giuoco infantile c’è una sorda cupezza, un tacito riconoscimento che consegue a un incipiente rimorso. Attraverso il destino che incombe sui balocchi – presto giaceranno distrutti – si rivelano la futura ferocia dell’innocente e la incommensurabile serietà del mondo”.
E negli anni Sgalambro ha teorizzato il nulla per praticare il divertissement. Paroliere di Battiato e cantante fai dai te, col suo accento rude che anche a sentirlo parlare in greco sembra bestemmiare santi e demoni. Scrittore di cose musicali e critico grand guignol. Affezionato al “pensare breve”, consolatore indifferente all’afflizione dice volentieri: “A me non importa nulla di te, ma solo così ti posso consolare”. Egotico al punto da concedersi all’altro da sé con dandystica naturalezza, gli si legge in faccia il suo “tu ci sei perché io ti penso”. La sua ultima mascalzonata si chiama Opus postumissimum (Frammento di un poema). È una deliziosa plaquette griffata Giubbe Rosse, il caffè letterario che già fu liquido amniotico di Papini e i futuristi di Firenze. “Io vivo alla fine dell’impero romano / in un giardino di ciliegie che sprizzano / il loro succo sulla mia faccia slavata”, esordisce il poeta di Lentini. Che poi, delicatamente perfido, replica i miasmi del suo Nietzsche nella nosologia di Kant morente: “In rottami il cervello si sbrodola / srotola come una cartomante / le sue madide carte”. Oppure: “[…] com’era nato, tra merda e piscio, / morì. / Come piccole mosche gli si posarono addosso gli Dei”. Infine: “Così sorgono i mondi, così / periscono. Così per Kant. / Ora pace”. Non manca lo stile al solipsista dal cervello robusto e angoloso come la mole del suo corpo. Né gli fanno difetto l’umorismo e la prosa che incide e marca profondità abissali. Semmai, a vederlo in foto o in tivvù, pantaloni fuori misura e scarpe da bifolco, diresti che gli manca l’eleganza. Ti sentisse commentare malevolo, non si offenderebbe. Osserverà distratto il tuo morire quotidiano e sorridendo ripeterà la suprema consegna: “Tu devi essere contemporaneo alla fine del mondo”.


Alessandro Giuli, Manlio Sgalambro in “l’Officina di Linea. Le ragioni nazionalpopolari”, luglio-agosto 2002

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