Sgalambro. Le note della filosofia

Sgalambro

Il mestiere nel cassetto. Ecco come un pensatore, autore di sofisticati saggi, diventa paroliere per un cantautore di successo

«Sono convinto che bisogna vivere più vite in una volta»
«Oggi non c’è più il gusto della vocalità. Per questo spettacoli centrati sulla parola trovano pubblici sempre più vasti»

Esistono persone che in quanto a lavoro riescono a fare ciò che vogliono. Sono poche, pochissime, come i veri happy few stendhaliani, ma ci sono. A queste vanno poi aggiunti coloro i quali, se proprio non riescono a fare quel che vogliono, riescono almeno a evitare ciò che a loro non piace. Uno di essi è Manlio Sgalambro, autore di libri filosofici che, con cadenza regolare, e con successo, vengono proposti da Adelphi.
Cosa fa, di mestiere, Sgalambro? Pensa. E lo fa con la massima libertà possibile, perché da non laureato egli non ha obblighi accademici o di qualsivoglia scuola. Un pensatore felice e corsaro, ecco cos’è quest’uomo di settantasei anni dall’espressione imbronciata e dal parlare colto e saggio.
Un mestiere nel cassetto? Un’attività, una professione alternativa coltivata in segreto o rimasta appesa al chiodo dei desideri di un siffatto personaggio? Si sarebbe tentati di non chiederglielo neanche. Eppure, a ben pensarci, Manlio Sgalambro è il soggetto ideale per un tema del genere, perché (lo spiegherà lui tra un momento) si è trovato a fare nientemeno che il paroliere, autore di versi e poemi per il cantante-musicista dai toni (e dall’aspetto) mistici, Franco Battiato.
Dio fa gli uomini ed essi fra di loro si accoppiano. È senz’altro vero per questi due siciliani «anomali». E il perché della loro anomalia è presto detto: se ne fregano di essere siciliani, o per lo meno non vi danno quel peso, a proposito della loro professione, che quasi sempre i siciliani sono condannati a darvi. Un privilegiato anche in questo, Sgalambro, al quale i giornalisti, sì, domandano qualcosa sulla mafia, ma così, per spirito di servizio, annotando risposte sensate e libere che anche un finnico potrebbe dare a proposito del triste fenomeno che ha reso malfamata la Sicilia. Da questo punto di vista, Sgalambro appare come un collaboratore ideale di Antonio Albanese, nella sua messa a punto di quella che al cinema e al teatro va delineandosi come una promettentissima dissacrazione dell’asfissiante, devastante sicilianità. Ma questo sarebbe un altro «mestiere», di cui ci piacerebbe parlare, eventualmente, in seguito.
— Allora, com’è che un filosofo serio come lei si è trovato a scrivere canzoni?
«Bisogna vivere tutte le vite possibili. Una volta bastava concentrarsi sulle opere, nell’illusione che qualcosa potesse rimanere. Il filosofo, per esempio, non doveva far altro che pensare; oggi non è più così. Sto vivendo una seconda vita da quando, per caso, sono entrato in un nuovo reparto di cose. Salgo sul palcoscenico, ho il cachet di coloro che calcano il palcoscenico, ultimamente ho anche cantato. L’occasione è tutto. Scrivere un libro e pubblicarlo che merito è? Il caso, la concatenazione delle circostanze, l’imponderabile fanno sì che si diventi qualcosa anziché un’altra».
— Com’è avvenuto l’incontro con Battiato? Chi è stato a fare il primo passo?
«L’occasione si è presentata nel 1994. Una vicenda di provincia, la presentazione di un libro scritto da un comune amico. Non sapevo niente di lui. L’ho conosciuto prima di tutto come una intelligenza, poi come una voce, come cantante. Avevo una mia cultura musicale (o meglio, l’avevo avuta, quando mi interessavo alla dodecafonia e al jazz), ma non pensavo alla possibilità di legare il mio lavoro di pensatore a uno spartito. È stato Battiato a chiedermi di scrivere un testo per un’opera musicale che aveva in mente. Gli dissi: “Sì, ma perché non facciamo un disco di musica pop?”. Nacquero così i testi metafisici de L’ombrello e la macchina da cucire. Poi passammo a cose più commerciali, L’imboscata, Gommalacca».
— “Io sono pronto ad ogni evenienza, / ad ogni nuova partenza: un viaggiatore che non sa dove sta andando…”. Sono versi suoi. Anche questi: “La gente vive senza più testa, / la specie è in mutazione. / E non sappiamo dove stiamo andando…”.
«Sì, sono le parole d’una canzone che s’intitola Splendide previsioni».
— Beh, come pessimismo non c’è male.
«Per forza, nella storia del nostro Occidente si è assistito a una ricorrente mortificazione dell’intelligenza, a quei momenti in cui “lo spirito si riposa”. Questo che stiamo vivendo lo è in maniera assai più evidente. È terribile, ma nello stesso tempo affascinante. Qualche anno fa, quand’ero giovane, regnava una stupidità che potremmo definire dell’intellettuale di provincia, quella del farmacista o del professore o dello studente che fa la guerra alla borghesia. Oggi la stupidità è una sorta di Nirvana, un cullante nulla per poveri».
— Forse c’è una specularità fra questo nulla e il pensiero di coloro i quali dovrebbero colmare questo vuoto.
«Già, ma non possiamo alzarci sulle grucce. Il fatto è che, oggi, siamo consapevoli che la grandezza dei grandi che ci hanno preceduti era una grandezza presunta. Nella memoria storica li ritroviamo uomini come noi. Si è sempre meno consapevoli che le cose che facciamo siano destinate a rimanere. Un tempo si diceva: “Io muoio, ma questa mia opera resterà”. Oggi sappiamo che non rimane niente. Per questo bisogna vivere quante più vite possibili».
Gesticola, Sgalambro, e i suoi gesti perentori accompagnano il discorso, danno ad esso credibilità e luce. Stiamo conversando nella casa milanese di Battiato dove lui è ospite. Fra qualche ora dovrà raggiungere una delle tappe della tournée estiva di questa originalissima accoppiata della canzone italiana: la Lombardia, ma anche Venezia, Ferrara, Agrigento. Ha appena presentato un suo poema inedito. Lui sul palcoscenico a declamare testi poetici e pensieri, Battiato ad accompagnarlo alla tastiera elettronica. S’intitola, questo poema, Il corpo del filosofo e racconta l’ultima mezz’ora di vita di Kant.
— Ma il pubblico viene per sentire musica o per ascoltare le sue parole?
«Per entrambe le cose. Al Maggio Fiorentino abbiamo presentato un balletto, Campi magnetici, con musiche di Franco Battiato e testi miei. In quest’opera, più che alla musicalità si tende al fatto acustico. C’è un piccolo accenno di melodia (c’è sempre in Battiato), un tocco che mette insieme tutto, ma è la sonorità che prevale, che racconta, che fa spettacolo. Alla fine ho cantato e il pubblico è rimasto lì ad ascoltare come fossi un cantante vero (ha cantato La mer di Charles Trenet, una rivelazione, n.d.r.). Questo tipo di spettacolo è un fenomeno che si diffonderà sempre più. La vocalità non ha la sua unica e spressione nel canto, ma anche nel pronunciare, nel dire; un dire sostenuto da una voce espressiva».
— Eppure, lei è il filosofo sostenitore del “pensiero che pensa se stesso”, l’autore di libri che non hanno come obiettivo primario quello di comunicare. Come fa, il pubblico, a entrare in sintonia?
«Quando parlo su un palcoscenico, penso. Il pubblico segue l’atto mio del pensare, che è sincero e reale. Del resto, se bleffassi, se fingessi, se ne accorgerebbe e mi massacrerebbe. Io sto pensando e il mio pensiero in quel momento non ha scopi, non ha obiettivi, esprime la sonorità del pensiero stesso. Ecco dov’è la differenza tra l’espressione e la comunicazione. Si comunica anche con un rutto, il fatto espressivo invece è un’altra cosa. Nella Scienza della logica di Hegel vi sono pagine di pura melodia. Un po’ come ho inteso fare con le mie poesie su Nietzsche» (Nietzsche. (Frammenti di una biografia per versi e voce), Bompiani, n.d.r.).
— Lei e il pubblico dei concerti. La piazza al posto della cattedra. I conti tornano.
«Sì, non avevo alcuna vocazione per una filosofia da insegnare. Pensavo, e il luogo del pensare si è spostato sulla piazza, come lei dice, o su un palcoscenico, dove si determina un momento di saturazione tra me e il pubblico. Poi tutto finisce».
— È interessante, e confortante, sapere che in un’epoca dove tutto è visivo si possa fare spettacolo con la parola, con il suono della parola.
«Mi è capitato, a proposito di Karl Kraus, di rintracciare un documentario degli anni Trenta: traumatizzante. Le voci di Kraus e di Hitler sono la stessa cosa. Hitler usava un microfono più potente del Geloso di cui si serviva Mussolini. Il risultato era che la sua voce, i suoi timbri s’imponevano in modo terribile. Kraus usava lo stesso microfono e, per raggiungere il più vasto pubblico possibile, impostava la voce allo stesso modo del suo peggiore nemico. Dico questo per dimostrare quanto sia importante la vocalità. Oggi, per fortuna, gli stadi vengono riempiti dai cantanti».
— Per fortuna.
«Certamente. Ma è un fatto che i leader politici di oggi non hanno più vocalità. Occupano uno spazio linguistico misero nell’illusione di comunicare meglio. Mancano di timbro, di una vera vocalità, della giusta retorica che alla fine bisogna pur avere».
E qui Sgalambro dà ragione a chi pensa che il luogo dove si nasce qualcosa significhi: lui è nato a Lentini, il paese del filosofo Gorgia, padre dei retori e dei sofisti. Ascoltiamolo ancora.
«I grandi matematici non disdegnano la bellezza estetica dei loro calcoli. Anche la matematica risponde a criteri di bellezza. I politici oggi credono di comunicare meglio attraverso una lingua sciatta. Per questo il rilancio della sonorità del dire, della vocalità espressiva è lasciato aperto e in futuro non riguarderà soltanto i cantanti. Non faccio l’indovino, ma questo avverrà. Il dire tragico non raccoglie più folle, ma il bisogno del dire rimane».

Da La morte del sole ai recital in piazza

1924. Manlio Sgalambro nasce a Lentini, in provincia di Siracusa.
1959. Pubblica il saggio Crepuscolo e notte
1982. Con Adelphi pubblica il libro che lo rivela come scrittore filosofico, La morte del sole
1987. Pubblica il Trattato dell’empietà (Adelphi)
1989. Per l’editoriale Il Girasole di Valverde scrive il saggio Del metodo ipocondriaco
1990. Esce, presso Adelphi, Anatol
1994. Pubblica Contro la musica (De Martinis). Dello stesso anno è l’incontro con il cantante musicista Franco Battiato, che gli apre la strada di sofisticato paroliere e persino di cantante


Matteo Collura, Sgalambro. Le note della filosofia in “Corriere della Sera”, 22 luglio 2000

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