Sciascia e le aporie del fare

I diritti della contemplazione estetica annullano quelli della critica che resta di sasso, come chi avesse un appuntamento e l’atteso non fosse venuto. II contemplante non «interpreta», come nell’atteggiamento critico, ma in lui avviene la ripetizione. È come se l’opera rimanesse tale e quale. E nulla si muovesse, nemmeno di un soffio.
Per un momento essa resta come prima, si trattiene anche il fiato. In quel sacro istante avviene – possiamo dirlo? – il miracolo: un sommesso dialogo fra spiriti.
Si intravede in questo scrittore la segreta convinzione che al limite di ogni agire sta il delitto. Se ne colgono le aporie in una specie di critica dell’agire su cui, al di là del divertimento connaturato al genere di cui si compiace, si indovina un riserbo che dobbiamo forzare. In realtà le riflessioni sul fare ci tormentano. Sulla natura delittuosa del fare non abbiamo più dubbi. Sulla puntadi esso, come sulla punta aguzza di una spada, balenano infamie.
L’ingenuità delle epoche operose non ci inganna.
A stento la buona coscienza trattiene ciò che avviene restringendone la possibilità col distinguere colpevoli da innocenti. Ma da colui al quale l’ardimento nascose l’intima natura di esso, la riflessione sul fare pretende assolutamente altro. A una rapida intuizione tutto si dà senza incantesimi. Non si sopporta nemmeno di «fare» il bene. Vi si vede tra l’altro il disprezzo per chi lo riceve prono. La tormentata coscienza si chiude sempre più nella sua stessa prigione. All’appello di chi ha bisogno d’amore risponde il possesso. Antica ferocia sublimata ma non redenta. Così la stracca vita si nutre di quell’agire che nello stesso tempo la distrugge. E tuttavia la domanda non cessa e chiede risposta. Qualcosa da fare s’implora. Così il vuoto dell’anima si presenta con gli occhi spalancati e le mani giunte. Ma proprio dal già fatto proviene l’appello a non fare. Questo scrittore tratta il delitto come se fosse l’altra faccia dell’agire. In realtà camminano assieme. Non si sa nemmeno, o forse si sa benissimo, se una critica dell’agire – critica nel senso in cui Kant usò questo termine – e una critica del delitto non siano la stessa cosa. In realtà ci appassiona poco lo scrittore civile, ma c’è uno Sciascia visionario e, in questi, qualcosa sopra ogni altra: il mistero del delitto.
Perché c’è il delitto?
Cosa significa un mondo in cui esiste il delitto? Scorgiamo, celata nei suoi scritti, una domanda del genere.
Ed allora non è questo o quel delitto il mistero.
Ma, appunto, il delitto. Ma in tal caso non è il delitto un affaire metafisico?
L’assassinio, la cui traccia metafisica va dunque seguita con tenacia, rappresenta, nella sua chiave ultrasegreta, il modo come tutti moriamo. Il fatto che distinguiamo gli assassini dalle vittime non è che un tributo pagato all’apparenza. Per Poe, Sciascia non lo ignora, l’assassinio è contenuto nello stesso principio ontologico. «Nell’Unità originaria dell’ente primo», scrive Poe in Eureka, «va la matrice di tutte le cose e la predisposizione al loro inevitabile annientamento». In ciò il segreto della morte è svelato in collegamento a un delitto: tutti moriamo assassinati. Questa appare in Sciascia, comunque, la vera morte «naturale» (anche se egli dice e fa dire il contrario). Il segreto dello scrittore non è da trascurare. Attraverso il riserbo, a cui abbiamo fatto cenno, appare il dubbio di Sciascia se ci sia veramente una morte naturale, se comunque ogni morte non sia violenta. Come si riflette ne Il cavaliere e la morte, se da un lato il delitto ci appartiene, dall’altro apparteniamo al delitto. Per quanto le convinzioni dello scrittore siano altre e la morte gli appaia come qualcosa che ogni uomo porta in sé, tuttavia non è assente in ciò che scrive un sospetto almeno della sua estraneità. Che la morte appartenga alla stessa essenza dell’uomo – e come qualcosa di intimo sia annidata in lui – o secondo il contadino boemo, che l’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire, ciò manca esattamente di descrivere, già a livello di fenomeno, il sopravveniente senso di esteriorità della morte. La morte è cosmica, non umana. Ciò vuole dire che precipita sull’uomo di cui le condizioni non sono mai tali da poter condividere la morte come qualcosa che ormai gli tocca. La morte è sempre in più. (Che l’uomo sia mortale: esercizio di scuola, buono per sillogismi di prima figura e a far sbadigliare). Che la morte sia «certa», non è mai così «certo». In qualche modo ciò indica non che l’uomo ne fugga, ma proprio la sua estraneità all’uomo come tale. Essa è fissata infatti dal cosmo, dalla sua lontana fine che chiama per nome, sin da adesso, uno per uno. La prosopopea dell’esperto, il quale stabilisce che ormai quel tizio è spacciato tende ad accreditarne l’immanenza. Si conoscerebbe tutto sulla morte, solo conoscendo la vita! Ma la morte viene sempre dal di fuori. Da qualche parte Sciascia dice (nell’Antimonio) «la morte è Dio». Ci pare che con ciò ne intenda l’estraneità. Lo sguardo stupefatto scopre un ordine che beffa ogni gemito. Tuttavia egli non arriva a dire, mentre tutto sembra portarvelo, che la morte è sempre la pena di morte decretata da non si sa chi. Il piccolo giudice di Porte aperte, che ha in orrore la pena di morte, non si accorge che c’è una pena di morte metafisica, quella per cui tutti moriamo. Non c’è morte naturale, dunque. Moriamo perché qualcosa ci uccide.
Le aporie del fare, dicevamo, indagando nel riserbo dello scrittore.
Ma in un siciliano vi si aggiungono le aporie dell’insularità.
Là dove domina l’elemento insulare è difficile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa constatazione: un’isola può sempre sparire («Il mare è la perpetua insicurezza della Sicilia», in Sciascia). Come entità talattica essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave; incombe perciò il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione a cui si consegna. L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere, rivela l’impossibilità di fuggire, come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, esso vive come chi non vorrebbe vivere. La storia gli passa accanto coi suoi odiosi rumori. Ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. All’esterno un brusio di alveare, al di là un desiderio di stasi. Una «storia» della Sicilia ne coglie solo la superficie: nella sua profondità essa è preistorica. Nei mari del Sud gli isolani dominano la materia marina, navigando. Così la trasformano in terraferma. Navigando si annulla il mare che diventa terra. L’immanenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime, invece, nei suoi ideali vegetali, fattispecie del Nirvana, nel suo terrore della storia… «Mon âme aujourd’hui se fait arbre»: questo è il nirvana siciliano… La Sicilia si giustifica solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera. Solo qui il terrore della storia è vinto e l’apparenza oltrepassata. Ciò che vi è di «altro» nel bello è il suo effetto distruttore. La felice tensione di una poesia fa scoppiare, se essa entra in te, il tuo povero cuore. Tu ne sei la vittima che accoglie devota l’acuminato coltello con cui il bello ti sacrifica. Nessuno dev’esserci dov’è la bellezza, questo essa sembra dire e con gesto sdegnoso ti volta le spalle. Chi vede il volto del bello muore, ma non disperato. Qui appare un’altra aporia del fare: l’arte, infatti, appartiene al non-fare. All’altro estremo del fare sta dunque il non-fare. Lo schermo che ripara l’individuo dalla follia dell’agire viene smantellato. L’individuo, salvaguardato dalla buona coscienza che lo rende responsabile solo dell’intenzione, con la millenaria distinzione tra buoni e cattivi, tra bene e male, non trova più riparo in essa. Il mito del malvagio, sul cui volto sarebbe riflesso il dolore della vittima, dileguandosi lascia dietro di sé la domanda su ciò che si riflette sul volto del buono.
Qui il non-fare si libera dei suoi limiti e diventa, esso stesso, eminentemente pratico. Così il fare oscilla fra il non-fare e il delitto. Su essi, questo scrittore ci ha impegnato a riflettere. La quiete di ciò che egli ha pensato, dev’essere rispettata. Ma nello stesso tempo devono essere ascoltati gli echi. Questo breve dialogo ha voluto, nel rispetto, ascoltare.


Manlio Sgalambro, Sciascia e le aporie del fare in Sciascia. Scrittura e verità, Flaccovio, Palermo, 1991, pp. 33-36

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