Sgalambro filosofo assoluto

Sgalambro filosofo assoluto

C’è oggi un filosofo che, non contento di esibire le sue risposte come ultime e uniche, definitive e insuperabili, senta il bisogno di enunciare – così, en passant – i suoi giudizi sulla «dabbenaggine di Descartes», sullo «stupido Leibnitz», su «Gadamer – un imbecille»? C’è, si chiama Anatol, ed è il protagonista dell’omonimo libro di Manlio Sgalambro, simile come due gocce d’acqua al suo inventore, misantropo pensatore siciliano.
Sgalambro ha fatto bene a trasformarsi in personaggio, ponendosi suo malgrado sulle orme dello Zarathustra nicciano: dà così più libero spazio al suo gioco intellettuale. In Anatol si riprende infatti la storia di una mente, anzi della solipsistica mente del filosofo assoluto. Ad Anatol non accade nulla che non sia mentale; sebbene – molto modernamente – nel pensiero accada la realtà. Anatol dice per esempio che la fine del mondo è già venuta, nell’istante stesso in cui è stata pensata, in cui cioè l’uomo occidentale ha negato la vita. Tra le pagine più suggestive del libro ci sono quelle in cui Anatol interpreta la tecnica come direttamente rivolta all’estinzione della vita: «La tecnica si appresta a sostituire l’uomo come mal riuscito», ripercorrendo così più radicalmente – sembrerebbe – il percorso verso l’estinzione di antichi asceti orientali.
Anatol ha una smisurata passione per la pura e disinteressata conoscenza: si muove in questa che è già una contraddizione. Non lo interessano le cose in sé, ma sapere come stanno. Non lo interessano gli uomini: «Chinarsi sul bisognoso lo giudicava assurdo e stomachevole», dal momento che «un lamento o un grido d’aiuto di chi è sopraffatto dalla violenza, forse sono il meglio che uscirà mai dalla sua bocca».
La prospettiva di Anatol non è né semplice né lineare. Per un verso la sua mente si abbandona passivamente alle cause, e così conosce le cose; per un altro verso è sospinta dal suo disperato bisogno di sprofondare nel loro presaputo orrore. Dalla predicazione di Anatol si potrebbero trarre due libri opposti: uno che esprime l’orgoglio compiaciuto del sovrano di conoscere la verità delle cose, di possederle nell’idea, siano come siano («il perfetto disegno di un carcinoma visto in una lastra mi rallegra»); l’altro che dice invece la terribile esperienza del male radicale del mondo («io piango e mi struggo dentro»).
Il linguaggio stesso, sempre almeno una nota sopra il rigo, mostra che questo secondo elemento viene prima e regge il gioco. Anatol in fondo sa, ma non dice se non per accenni, che si tratta di un gioco mentale, di un modo di eludere, illudendosi di dominarla, l’insostenibile realtà. Sa di non essere pervenuto davvero alla conoscenza: «Una conoscenza che non perdoni, crudele e senza grazia. Ciò che si può raggiungere solo in un momento e poi ci abbandona. La conoscenza per una volta sola, implora Anatol». Sa anche che «la conoscenza è la sentina di tutti i vizi», sa che «non altro che pensiero si specchia nel pensiero e in questi accorui, idee di idee, si consuma la mia aridità».
A complicare tutto c’è il bene, intanto, nel senso cristianamente preciso del rifiuto della morte di chi si ama. Anatol non dice la parola «pietà» – non può dirla – ma prende atto che anche il bene c’è, ne fa esperienza provandolo, persino, «verso un cane che guaisce». «Ma, da dove dunque il bene? Ci appaghiamo dicendo: mistero». Il bene è impotente e sconfitto, «ma che ci importa? Per un momento il nostro capo si levò al cielo e il nostro cuore batté più forte».
Oltre al mistero del bene c’è anche «il mistero della bellezza», che «sta in questo non sapere da dove mai essa spunta e quando». «Il bello è la mortificazione delle opere d’arte. Se non le rinneghiamo, se non passiamo sul loro corpo, nulla si fa vedere. Se l’opera d’arte non muore…».
Eppure è proprio all’opera d’arte che Anatol approda, a quella particolare azione – lui che nega valore a qualunque azione – che consiste nel compiere l’opera d’arte. «Datemi il mio dolore, potenze celesti. Ridatemi la mia gioventù»: ma, una volta perduto il taglio vivo della sofferenza per l’orrore del mondo, non resta che l’opera d’arte, non resta che vivere esteticamente: «Sostituisco al tutto un’opera». E siamo ridotti così, infine, alla «conoscenza come conoscenza della frase»: «Riteneva che la loro verità fosse, in qualche modo, nel suono».
Queste sono le ultime parole del libro: «Scrivere è un atto totale, solleva dall’agire e dal patire. Io sono? Io scrivo. Coglieva finalmente l’incontro di tutte le cose e si affermava superbo in questo atto. O gioia, la vita è superata! Il faut tenter d’écrire!». Ma il dubbio di essere «solo un feuilletoniste, un amatore di colpi di scena… un artiste parisien, un faiseur de livres» l’aveva già avuto. E aveva saputo che «chi esaspera il proprio disaccordo col mondo, la rabbia di essere in esso, se lo canticchia troppo bene entra nelle grazie di ciò che egli vorrebbe sbranare».


Sergio Quinzio, Sgalambro filosofo assoluto in “Tuttolibri” (supplemento de “La Stampa”), 24 marzo 1990, p. 4

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