Teologia senza religione?

Massimo Sebastiani in Il Popolo, 9 febbraio 1988, p. 8

Quella di Manlio Sgalambro, autore di Trattato dell’empietà (Milano, Adelphi, 176 pp., 16.000 lire), è una figura davvero insolita nel panorama della produzione filosofica italiana e non solo. Autore, prima di questo, di un solo altro libro, La morte del sole: pubblicato sempre presso Adelphi, questo aspro e solitario professore di filosofia siciliano non somiglia a nessun altro dei cattedratici che percorrono la nostra penisola e, talvolta, si spostano anche oltre i confini del Belpaese per portare altrove il loro verbo.

Pubblica poco, come si è visto, non partecipa a convegni, tantomeno interviene nei dibattiti che si aprono sulle riviste o nelle terze pagine del quotidiani, conosce meglio le aule e gli studenti che non le sale d’aspetto degli aeroporti, non è citato da nessuno (lui d’altra parte «ricambia»). Insomma è, almeno nell’atteggiamento esteriore, un animale rarissimo.
Se poi ci spostiamo a considerare la sostanza del suo pensiero, le cose non vanno davvero meglio. Il primo libro aveva suscitato curiosità più per la stravaganza dell’autore che per altro, il secondo è stato rapidamente archiviato. Il fatto e che Manlio Sgalambro è un pensatore profondamente, e nel senso più autentico dei termini, inattuale ed inquietante.
Intanto parla (almeno apparentemente) di Dio: e dunque si capisce subito che qualcosa non va, anche in tempi di irrazionalismo imperante e religiosità strisciante (denunciate da Umberto Eco in apertura dell’ultima Fiera del libro di Francoforte): ha la pretesa di scrivere un trattato di teologia e contemporaneamente non risparmia critiche ai sentimenti pii e ad una certa concezione dell’amore di Dio: cita autori desueti (quando non, per alcuni, sconosciuti) e ne stronca altri alla moda (primo fra tutti Heidegger); ridicolizza la filosofia debole: infine scrive per aforismi, non usa le note e riversa sul lettore dimentico della lingua di Cesare estenuanti citazioni in latino: ce ne sarebbe (e ce n’è, secondo i più), per meritarsi l’esclusione dal circuito dei dibattiti filosofici «à la page». Ma è possibile, al di là delle apparenze dar conto delle tesi filosofiche contenute nel Trattato dell’empietà.
Tanto per cominciare, Manlio Sgalambro almeno in una cosa somiglia a qualcuno dei suoi contemporanei: nella volontà di rifondare, in qualche modo. la filosofia, o comunque nella consapevolezza che la riflessione filosofica è giunta, per cosi dire, ai suoi limiti e si pone il problema, al tempo stesso storico e teoretico, di ripensar i propri temi, metodi e obiettivi. E se per molti questo compito è in un certo senso irrealizzabile, e il tentativo di ripensarci si identifica, per la riflessione filosofica, con il suo naufragio e l’abbandono di posizioni «forti», per Sgalambro c’è una sola via d’uscita all’impasse filosofica: la teologia. Non la religione (o peggio ancora la morale), precisa il filosofo siciliano, ma la teologia, quella dei trattati e dei manuali della tarda Scolastica e del Seicento, di Suárez, Melchor Cano e Wolff.
In questa teologia non c’è niente di religioso, nel senso della fede: in quanto scienza del divino, ovvero dell’Altro la teologia è la versione più corretta della gnoseologia, cioè della teoria della conoscenza che studia il rapporto problematico tra un soggetto e gli oggetti a lui contrapposti. In un mare filosofico. l’autore del Trattato dell’empietà ripropone in tutta la sua drammatica e aspra contrapposizione il saldo binomio dualistico di io e mondo. coscienza e realtà. uomo e Dio.
«Il sentimento teologico coincide con il sentimento di ciò che è “fuori di noi”» dice Sgalambro: e aggiunge: «La realtà estranea si può conoscere solamente in una teologia». La filosofia dunque torna ad essere dogmatica perché pone la realtà come già data ma, appunto, estranea: tener fede a questa estraneità significa (filosoficamente) disprezzare ciò che ci si impone, l’altro come «rocciosa resistenza al soggetto». In questo disprezzo consiste l’empietà della nuova teologia.
In definitiva quella di Sgalambro è a suo modo la proposta di una filosofia «forte», che torna indietro ai temi classici della riflessione metafisica, considerandoli irrisolti e, dunque, attuali. Con buona pace di quel «polimorfismo filosofico» che è la caratteristica dominante del pensiero filosofico contemporaneo.