Lettera sull’empietismo

Manlio Sgalambro in MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2/2000, maggio-giugno 2000, pp. 199-205

“Caro confratello (…) possiamo credere a Dio senza amarlo e subendolo. È su questo terreno che voglio condurla e da qui mostrarle come l’empietà non sia un vano gesto, un’alterigia scomposta. (…) Odio intellettuale: provare odio senza sentirlo. E così che io ‘odio’ Dio”.

1. Caro amico e confratello, lei mi chiede cosa sia l’empietismo a cui mi sono richiamato alcune volte ma che sicuramente è il motivo dominante della mia riflessione. Anzitutto «empietismo», lei dice, non ricorda nella forma quelle deprecabili filosofie di una volta che chiuse in se stesse non mettevano mai il piede fuori di casa e pretendevano di avere visto il mondo? Le rispondo che io ho nostalgia di ciò che lei ricorda con biasimo. Quelle filosofie adempivano onestamente il loro compito e con la loro segregazione davano ben conto dell’universalità della loro ristrettezza. Con l’unilateralità che le caratterizzava sapevano insomma rispondere sufficientemente di quella universalità che da loro giustamente si esigeva. Conclusione di una degna filosofia è chiudersi in se stessa. Il dono della Forma non ricade sulla realtà che per un momento. Poi ritorna a essa. Il buio e il freddo restano fuori.
lo dico dunque che empietismo anzitutto è quell’atteggiamento generale di fronte al mondo che tiene assolutamente conto di ciò che potrebbe essere il primo passo di un metodo: il mondo non dev’essere. (Vedremo poi che l’ultimo gradino di questa gerarchia si formula nel modo seguente: Dio non dev’essere). E da qui che deriva il nostro diritto alla valutazione. Davanti alle domande sull’esistenza: «esiste il mondo?», «esiste Dio?», alla domanda «cos’è l’essere?» – domande di una specie che ha smarrito i suoi doveri speculativi – si ergono queste: «che vale il mondo?», «che vale Dio?», «che vale l’essere?». Qui non vi sono più tracce di un sapere sempre rinviato e provvisorio. Ma di un sapere imperativo. Per quanto riguarda la risposta alla domanda «che vale Dio?» occorreranno prima ostinati esercizi per passare dall’abitudine contratta a considerare Dio l’ente sommo a quella di considerarlo il «più infimo». (Lo riconosco, lei può dire che l’empio usa il nome Dio come un epiteto, un insulto di bassa lega. Se dice che qualcosa o qualcuno è Dio, è che vuole infangarlo, denigrarlo… Dio è un insulto «quo nihil maius cogitari potest»… Ma tutto a suo tempo). Si dovrà raggiugnere questo grado, ad esempio, prima di potere esercitare una teologia quale tutti quelli del mestiere auspichiamo. Il riferimento a Dio come all’ente più infimo dovrà essere spontaneo, anche se, a quel che pare, contro natura. L’empietà è insomma sforzo di separazione. Che lei possa dire: io me ne sono separato. Che ciò coroni i suoi sforzi e per un momento le dia pace. Ripeta continuamente: io me ne sono separato, io me ne sono separato… Caro confratello, perdoni il mio delirio. Ma andare contro natura – nel caso che lo fosse – costa.

2. In che consistono ora gli atti della separazione e cos’è, in generale, la separazione? Da che «cosa» ci si separa? In fondo a ogni separazione, c’è la separazione da Dio? O questa affermazione è solamente letteraria? Si parla oggi tanto della differenza tra ente ed essere. Ma se si cerca un punto da cui partire esso è l’atto in cui avviene la separazione di un ente dall’essere. «Io me ne sono separato»: da qui si inizia.
Ciò che abbiamo detto è riassumibile anche così: l’idea di Dio è un’idea inferiore. Il risultato del mio ragionamento, come potete vedere, è un Dio non divino e, quello dei nostri comuni sforzi, la disunione da Dio. Voi mi aiuterete a capirmi, non è vero? O ciò vi allarma? «Perché Dio?», voi mi dite. Datemi la strapotenza dell’essere e questo nome mi uscirà dalla gola come un urlo bestiale. Come volete che lo chiami, Gretchen? Noi non deriviamo dalla scimmia ma dalla logica. Ma vi assicuro che è peggio.

3. Mirare dunque alla separazione da Dio, procedere al distacco quotidiano negli atti relativi. Tale è l’umile compito dell’empio. Io, debbo dirlo, mi vergogno che Dio esista, come credo anche lei. L’empietà è frutto di una vergogna profonda forse legata a una giusta superbia. Aggiungo anche di un’onta intollerabile. Sì, un’onta. Un’offesa arrecataci dalla sorte che tutti gli sforzi che possiamo fare, a quel che pare, non cancellano. Chi si preoccupa infatti dei risultati del pensiero? È qui che potrebbe avvenire qualcosa. Gli inetti si aspettano invece delle azioni e bussano alle sua porte solo per averne una. Quanto al mio pensiero, lei lo sa, si esaurisce in se stesso.
Le voglio ora parlare, per un momento, dello stato di felicità che si raggiunge nell’empietà. Ciò che io, fra me e me, chiamo empietà è la felicità che provo nel regolare in nome della specie i conti con l’immonda «creation continuée». Le diverse circostanze di questa posizione cozzano con l’avarizia di un pensare che disconosce l’intensità. O l’idea di praticare l’empietà è solo un sogno? Ho il merito di avere capito quant’è banale l’idea di Dio. La gioia di essere uno dei pochi a saperlo mi inebria al punto che dimentico i miei doveri. Il pensiero fluttua e la costanza si disperde nella precarietà. Il pensiero è accusato di sistema ogni qual volta si accanisce, un diritto, caro signore, che mi riconosco e riconosco ad esso. Che Dio possa essere oggetto di brama, francamente non lo capisco. L’empietà è una qualità: essa si dà sempre per intero. Sembrerebbe in tal caso che il concetto di Dio su cui lavoriamo sia l’oggetto di una cospirazione più che di una teologia. Ma l’assicuro che questa e l’unica teologia possibile come quello l’unico Dio possibile. Noi dunque crediamo a Dio. Non mi stancherò di esaminare il potere di questa a: è essa che ci immette nel regime dell’empietà. Perché mai l’esistenza di Dio dovrebbe destarcene il desiderio? Ecco invece ciò che non riesco a spiegarmi. Questo è già empio. «Tu non amerai mai Dio»: ecco il comandamento del teologo separato. Infine, distacco, separazione sono le parole chiave del sentimento d’empietà per un buon metodo. (Ma forse l’empietà è solo sentimento? Vanità delle vanità? Abbiamo parlato invano di pensiero?). Un’ultima domanda concerne il metodo come praticare l’empietà. Praticare il distacco e la separazione, percorrere ogni giorno un passo in più in quest’ultima, questo e praticare l’empietà. Ma voglio finire con la felicità dell’empio. Il suo è animo di giusto, mi pare ovvio. Ma devo pure aggiungere che il suo è animo di felice.

4. La noia, la fretta, la stanchezza, il daffare allontanano da Dio in modo subdolo, ma non vi è più di questo. È come quando si allontana una sedia dal tavolo. Essa è sempre lì. Se si nota al nostro uomo: ma tu ti sei allontanato da Dio, la sua risposta in coscienza è no. Colui al quale è stata posta la domanda non si è allontanato da Dio, non ne sa proprio niente. Egli ha anzi la coscienza che tutto trascorra quietamente e che non vi sia alcun problema. Eppure è così: tra lui e Dio vi è ormai una enorme distanza. Anzi per gli occhi altrui è fatta. Non c’è più alcun rapporto. Ma questa distanza non è propriamente un allontanamento ed egli ha tutto il diritto di rispondere che non si è allontanato. Ed effettivamente non si è allontanato, per quel che lui sa, nemmeno di un’unghia. Si tratta piuttosto di una specie di deriva dove insensibilmente è avvenuto qualcosa ma niente di più. Anzi, nel momento in cui una domanda siffatta lo rende attento, egli può dirsi onestamente stupefatto che si possa dubitarne: no, non mi sono allontanato da Dio, lui risponde. Eppure egli si è allontanato. Per meglio dire, una sorta di moto, come lo sciacquio pigro una corrente lo ha portato lontano. Egli però lo ignora. Ma in realtà lui ha ragione, non si è poi allontanato di così tanto. Anzi è
sempre lì.

5. Noi stiamo vivendo la lunga fine del cristianesimo, amico mio (non vi dico nulla di nuovo). E come accade in questi casi ne rimestiamo il fango. Devo dire che io trovo nel cristianesimo tutte le idee esemplari e ripugnanti di ogni religione. Esso è impastato della nostra «merde».  Colui che si schiera dalla parte di Do è l’uomo non umano, l’uomo «senza valore», la bestia feroce fornita di ragione come l’elefante di zanne, la belva umana. C’è del molochismo in ogni religione. Ognuna di esse è dalla parte di Dio: tanto basta. Un antropomorfismo ragionevole non può concepire Dio che come «Persona». Lo ammetto, anzi lo sostengo persino. Ma è altrettanto necessario, in una simile veduta, pensarlo come «Cattivo». Malebranche, amabilmente, chiamava quest’ultimo attributo l’«egocentrismo» di Dio. È lo stesso… Il cristianesimo è l’era animale dello spirito. Esso, mio caro confratello, è la religione più animalesca che si sia data una organizzazione concettuale. In ogni caso la Mediazione non è avvenuta. Ma siamo ancora avanti Cristo o lo siamo per sempre? L’agonia del cristianesimo non è solo il tremore di un’anima che ha perso ogni speranza. Per chi si consuma sui libri questo può bastare, ma per il vivente che vuole la controparte in palpabili emozioni e immagini e che può credere nella morte del cristianesimo con la stessa forza con cui il suo eponimo credette nel cristianesimo, sfiora appena il problema. In ogni caso la fine del cristianesimo non equivale alla sua scomparsa. Al grande cristianesimo che Hegel nelle Lezioni sula filosofia della religione ritenne necessario per porre come si doveva il problema di Dio, succede la sua controfigura. Bisogna aggiungere però che da essa emerge, proprio per questo, il lato inesplorato, represso: la detestatio Dei, l’odium Dei, il contemptum Dei… Emergono gli atti della separazione. Tutto ciò che vene conculcato, sprofondato nei punti più bassi della teologia, dal cristianesimo palpitante. Ma l’essenzialità del cristianesimo per la teologia resta indiscussa in entrambi i casi. Solo attraverso il cristianesimo, sopravvissuto e senza valore, può emergere l’articolazione dell’empietà nella fattispecie teologica: «Nam et dæmones credebant ei, et non credebant in eum. Quid est ergo  credere in eum? Credendo amare, credendo diligere, credendum, in eum ire» (Agostino, In Johannis evangelium, XXXIX, 7. 6). Questo cencioso cristianesimo contiene una perla. L’empietà obliata torna repentinamente alla memoria: l’empio crede a Dio non in Dio. Dove sta dunque la necessità del cristianesimo per la teologia? Bisogna intendere questa «necessità» nel senso di Hegel, abbiamo detto, ma, per così dire, dall’altro lato. Solamente attraverso il cristianesimo ci sono dati certi stati dell’empietà: ingratitudo contra Deum, contemptus ed irriverentia Dei, destractio, contumelia, derisio: maledictio in ordine ad Deum, aversio a Deo… Li abbiamochiamati precisamente, gli atti della serarazione. Il cristianesimo è religione teologicamente assoluta, ma altresì è ciò che san Tommaso definisce fede «coacta», «non laudabilis» (Summa theologiæ, I-Il, q. 5, a. 2). Mi consenta, caro signore, di chiamarla fede senza fiducia. In essa si «crede» a Dio nelle modalità dell’irriverentia e del contemptus. Ma, come già sosteneva Abelardo, tutto ciò si dà solo in relazione a un peccatore e a dei peccati. In altri termini, né la irriverentia Dei, né la detractio o il contemptus acquistano autonomia se non alla luce dell’empietà come focus imaginarius. In ognuno di questi atti l’empio si separa da Dio.
Se vogliamo continuare a parlare teologicamente: poiché Dio è «amato» naturaliter «non potest ab aliquo haberi odio». Ma lo stesso Tommaso distinguendo oltre «l’amor naturalis», la «charitas» («amor Dei non qualiscumque, sed quo diligitur Deus, ut beatitudinis objectum») ne consegue che l’amore elettivo di Dio è ben altro dall’urtata presa d’atto della sua esistenza. O meglio, noi possiamo credere a Dio senza amarlo e subendolo. È su questo terreno che voglio condurla e da qui mostrarle come l’empietà non sia un vano gesto, un’alterigia scomposta. Certo occorre costruirla attraverso mille emozioni contrastanti e altrettanti concetti. Ma noi penetriamo con essa nelle più squisite regioni metafisiche. Odio intellettuale: provare odio senza sentirlo. E così che io «odio» Dio.

6. Io vago tra personale e impersonale, amico mio, ma voi sapete che questa condizione è propria della nostra comune disciplina. Questa oscillazione fa parte di una buona attitudine al mestiere. La stessa emozione del filosofare può dominarci talmente che non badiamo più alle sue più nascoste scaltrezze. Dovremmo guardarcene? Io qui vi parlo dell’empietismo con sentimenti puri. Ma posso garantire che non vi sono compromesso? Sono stato educato all’obbedienza alla santissima filosofia e nel timore e rispetto per i suoi Concetti. Non ho mai riconosciuto che doveri speculativi. Dio è per me un termine tecnico, non un pezzo di carne. Ma posso veramente affermarlo?
Dopo la rivalutazione dell’«odio» come atto metafisico, secondo le famose parole di Scheler, il concetto di «Gotteshass» (che tuttavia Scheler ritenne emotivamente impossibile) dovrebbe dare luogo, almeno io lo auspico, a ricerche estremamente importanti nel cuore stesso della teologia medievale (questa Inghilterra della teologia, avrebbe detto Marx). A prima vista le Grundstimmungen in cui è implicata la separazione-da-Dio risultano in essa singolarmente prioritarie. Da questo punto di vista essa è più ricca della riflessione secolarizzata che non ne conosce che uno solo: l’ateismo. La situazione si presenta ingarbugliata. La presenza di questi stati affettivi nella teologia medievale è dominata dal concetto di peccato. Ma una scienza sicura di questi stati affettivi si ha nei momenti in cui l’analisi teologica lo mette da parte. In questo momento essa produce analisi, mi creda, di squisita e ineguagliata fattura. Nella teologia medievale la stato affettivo dominante è l’«acedia». Essa prima di tutto è «fastidium Dei». In Guglielmo d’Auvergne lei troverà una indicazione precisa: «Deus igitur ipsum fontem omnium suavitatem in primis fastidit accidios». L’«acedia» in se stessa è stanchezza di essere, fastidio di essere. «Filiæ acediæ» sono «malitia», «rancor», «desperatio».
La «malitia» è odio-amore per il bene in sé, o per Dio. La «desperatio» è il senso intollerabile della condanna definitiva a Dio, come se Dio fosse la stessa condanna. (Noi siamo infatti, come si sa, condannati a Dio, sensazione di estrema perfidia che il teologo, mi creda, ha sempre coltivato). Il «rancor» è la rabbia per il bene, attraverso coloro che lo praticano, l’ira, quindi, per il Bene stesso. (Come se il piccolo bene di tutti i giorni ci fosse stato così rapito e il grande fosse apposta troppo grande).
Posso dire la rabbia stessa che: ci sia Dio…? Egregio signore, avrei voluto farle avvertire tutto il peso che la teologia ha sempre sentito di questa Esistenza! Farla godere dei mille sotterfugi con cui cela la sua rabbia! Le leggi d’esclusione dell’empietà sono leggi complesse e praticate da essa come in stato di sonnambulismo, senza dunque che ci si accorga di niente come ogni volta che si pratica un intedelta. Ma, mio caro amico, io non sono riuscito a fare credere all’empietà. Che epoca infame è la mia! Io sono uno dei pochi che crede a Dio! Ma ciò rende consapevole, me per primo, attraverso quale via si può raggiungere questa dannata credenza in tempi come i nostri.

7. Sono felice, oggi ho tolto un predicato a Dio: Dio non è divino. Mio caro confratello vuole il mio credo? Glielo dico schiettamente. Credo a Dio ma senza fiducia. Credo in un essere che mi è dato assieme a me stesso, che mi sorpassa smisuratamente in quanto essere, ma che io sorpasso infinitamente in quanto pensiero. Esso non possiede alcun attributo, pur essendoli tutti, ma proprio perché li è, non li ha. Per cui non ha Intelligenza né Bontà, pur essendo entrambe in esso come essere. Ma ciò non vuole dire altro se non che egli le contiene ma come un qualsiasi contenitore contiene il suo contenuto.
Noi abbiamo «due» verità, insomma, una per la folla e un’altra per noi. Il paradiso della conoscenza è per noi. Solo noi vi abitiamo né riconosciamo altri concittadini. Quello che abbiamo detto dell’idea di Dio è iscritto nel suo concetto, diciamo pure come in un triangolo le sue proprietà. Se riusciamo ad avere un adeguato concetto di Dio ne possediamo tutte le note. Dobbiamo aggiungere che l’inferiorità di Dio (e la sua sinistra superiorità) si traggono egualmente dal suo concetto. Possiamo dire che quando si parlò di «odio» – come del resto quando si parlò d’amore in questo contesto – eravamo molto lontani da quello che intendevamo veramente. Tutta la teologia occidentale, nel suo grande periodo, non aveva saputo elevarsi oltre l’amore e aveva nascosto l’odio. Nella filigrana del peccato si intravedevano percorsi occultati attraverso cui apparivano in obliquo la nausea, l’odio, il disprezzo di Dio, tutti gli atti insomma della separazione. Questi aspetti bestiali emergevano come lampi o folgori che fossero e sviavano. In realtà tutto si contiene nel concetto stesso di Dio. Nel concetto di Dio si contiene la sua inferiorità. Ora posso chiudere in pace, amico mio, queste riflessioni, ora che mi si fa chiaro che l’empietà nulla ha a che vedere con l’impulso bestiale dell’odio (come d’altronde con l’impulso bestiale dell’amore) ma essa emerge come da una massa di luce: è la chiarezza stessa dell’atto della mente quando «pensa» Dio. Attraverso il nostro cammino abbiamo rimesso nel concetto di Dio ciò che sembrava starne fuori, possiamo dunque guardare in esso in pace. Vi ho condotto attraverso un percorso a volte infuocato e passionale. Ma ora possiamo riposare entrambi. Guardiamo i nostri concetti come nelle serene notti di plenilunio si guardano le stelle. Anche questo infernale concetto possiamo ora contemplarlo dalle zone celesti del filosofare.
(Oggi, mentre passeggiavo, ho sentito scuotersi le mie evidenze, le certezze che avevo da tanti anni, le mie emozioni più care, il mio modo di goderne. Qualcosa sollevava in aria il mio piccolo edificio e poi lo ributtava a terra con violenza mentre tutto andava in pezzi… Per un attimo non avevo più niente, tutto distrutto, ma in istante dopo tutto si era ricomposto. Provai a saggiare la mia assoluta sfiducia in Dio: intatta. Continuai la mia passeggiata.)