L’archivio svela l’inedito di Sgalambro ispirato a Goethe

Alessandro Puglia in La Repubblica (ed. di Palermo), 6 marzo 2024, p. 12

A dieci anni dalla morte, la figlia del filosofo mostra il patrimonio di carte e manoscritti
E spunta una chicca

Un quadernino con una macchia di caffè, un manoscritto su Kant e il problema teologico scritto negli anni giovanili in cui «bisognava fare solo quello che si era prefisso fare ». Studiare la filosofia senza essere distratti. E ancora, versi scritti su carta pregiata o su comuni post-it, le poesie trascritte al computer che hanno per titolo Alabama o quello di una misteriosa donna dal nome Gertrud Billy, esplorando spazi, praterie dell’anima, vagando «per i campi del Tennessee» come nel testo della canzone La cura scritta insieme all’amico Franco Battiato.
Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Manlio Sgalambro, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, scrittore, poeta, autore di numerosi testi scritti per Battiato che quel pomeriggio del 7 marzo 2014 durante i funerali nella chiesa dei Miracoli di via Umberto a Catania nascondeva al pubblico le lacrime e il dolore per la perdita di un amico. I due si erano conosciuti attraverso l’amico comune Angelo Scandurra, a Catania, e da allora hanno iniziato la loro collaborazione. Litigando per una strofa, riappacificandosi con una telefonata, mantenendo sempre ognuno il proprio universo di sapere. Universi che erano poi sempre paralleli perché alla ricerca della verità, di un’unione spirituale.
A dieci anni di distanza dal vuoto che una figura come Sgalambro ha lasciato nel panorama culturale contemporaneo e nella sua città, Catania, la figlia Irene, ha mostrato per la prima volta l’archivio con circa 2300 manoscritti, alcuni editi, altri no, che Manlio Sgalambro custodiva con cura nella sua abitazione del centro storico. Un archivio che è stato interamente digitalizzato dalla figlia subito dopo la morte del padre: «È stato un modo per sentirlo ancora vicino, quando lui se n’è andato io ho perso mio papà, ma è stato come se avessi perso anche la cultura, perché lui quotidianamente mi donava un verso o un breve racconto. E lo faceva con le sue nipoti perché era un nonno premuroso e presente», racconta commossa Irene Sgalambro. La figlia del filosofo oggi desidera che questo sterminato patrimonio di sapere possa diventare accessibile a chi voglia approfondire la figura di Manlio Sgalambro. Il filosofo nato a Lentini, in provincia di Siracusa, era anche nonno di 13 nipoti che sempre lo circondavano in occasione delle presentazioni dei suoi libri alla biblioteca Ursino Recupero, luogo amato da Sgalambro.
All’apparenza poteva sembrare un uomo schivo: «Era invece riservato, aspettava prima di aprirsi e poi donava tutto se stesso». Il genero Andrea racconta di quella volta quando un operaio andò a casa sua per mettergli dei chiodi: «Gli aveva dato 100 euro e l’operaio non voleva accertarli, ma lui gli disse che era rimasto folgorato dalla sua precisione e dalla sua umiltà. Perché lui guardava sempre al cuore delle persone», racconta.
Accanto al manoscritto su Kant c’è un faldone rosa che Irene ha posizionato con attenzione. È l’ultima opera, ancora inedita, di Manlio Sgalambro. È datata 20 settembre 2013, cinque mesi prima di morire. Il titolo è Werther il vecchio. Aprendola scorriamo i testi stampati in fogli gialli. Ci fermiamo all’incipit e scoprendo che si tratta di una rivisitazione de I dolori del giovane Werther dello scrittore e filosofo tedesco Johann Wolfgang Goethe troviamo tutto Sgalambro: «O Werther, ci interessano ancora i tuoi dolori, o da che invecchiasti non soffri più? Vigilo sulla mia morte, egli rispose, e curo i miei entusiasmi. Il puzzo di bambini e di cani, le insidie di un giorno di pioggia, le traversie del vivere quotidiano, ne cerco ancora il segreto. Nel mentre la nave affonda».
L’ultima opera è incorniciata nella sua cifra stilistica: «Prosa semplice, priva di qualsiasi formula barocca, pochi aggettivi perché questi depotenziano il pensiero come Sgalambro stesso diceva, è in questi inediti che ritroviamo il filosofo della fine del mondo – spiega Melita Leonardi, storica e amica di Sgalambro –. Ma per lui come per Schopenhauer non c’erano allievi, c’era solo il maestro», chiosa la docente che ritrova un altro dei temi ricorrenti nella prosa filosofica di Sgalambro, la vecchiaia: «Le idee piovono come fresca acqua di ruscello e cadono da quel mondo che fu detto delle contesse. La compatta unità si spezza e le idee si distinguono l’una dall’altra. Eppure non dicono la stessa cosa? Infine fare di sé la propria statua. Niente altri, niente umanità. Questa è la legge dello svegliato. Le campane dell’Occidente suonano solo per lui. Qui si dicono le ultime parole della specie e qualcuno le incide», scrive ancora Sgalambro nell’incipit richiamando con il tema del risveglio quel mondo di studi teosofici di cui si nutriva, proprio come faceva Battiato, Gurdjieff, uno dei filosofi più amati di cui custodiva tutti i libri pubblicati dalla casa editrice Astrolabio.
Il Werther di Sgalambro non si suicida, non muore giovane come gli eroi, ma invecchia: «Gli anni lo avvolgevano come una tunica bianca. Candito levriero, occhi di giada. Egli giudicava senza impazienza l’ultima partita. Bisogna immaginare Werther felice».
La vecchiaia è il luogo dell’eternità e della fine. Come in quelle strofe cantate ne La porta dello spavento supremo, dove «tutto si dissolverà». Perché è così che Sgalambro dieci anni dopo ci dice ancora che siamo niente.