Memorie di biblioteca

Paolo Manganaro in La Sicilia, 17 marzo 2017, p. 15

La frequentazione della casa di Manlio Sgalambro che raccoglieva veri tesori bibliografici. La sua preziosità consisteva nella ricercatezza e abbagliante unicità di una collezione di 18mila volumi di filosofia dai percorsi speculativi più impervi con autori contemporanei ai più quasi misteriosi

Conosco Manlio Sgalambro dalla mia prima giovinezza. Da allora frequentavo anche Sebastiano Addamo e Angelo Catanzaro. L’ultimo nome è sconosciuto. Era uno psichiatra e antropologo di gran valore, scrisse intorno e Ernesto De Martino. Manlio, Nello e Angelo erano grandi amici, io mi accodavo. La sera ci incontravamo al bar, al ristorante o nei rari ritrovi notturni di Corso Italia della Catania di allora. Di che si parlava? Di tutto ciò che allora si chiamava cultura, non di politica. Ma si parlava anche di comunismo e di marxismo, di utopia e realtà. Ovviamente anche di problemi personali, ma soprattutto di cultura. Io lanciavo la pietra, Manlio e Nello la facevano rimbalzare, ampliando il discorso. Manlio era conciso, lapidario, ma sempre chiaro, anche nei suoi paradossi. Io raccoglievo e tacevo. Da loro mi separava quasi una generazione. In quegli anni frequentavo anche Paolo Sylos Labini, che per poco tempo fu a Catania. Avrebbe voluto che lo seguissi a Roma e mi iscrivessi ad Economia. Ero indeciso: l’economia poi l’ho sempre ricercata nei classici, in Smith, Kant, Hegel, Marx (invece mio figlio è un economista). La mia amicizia ed affetto con questi amici, e con Manlio in particolare, nacquero e si svilupparono per molto tempo, decenni, anche se io ero spesso lontano. Nel ’57 mi ero iscritto a Filosofia, a Roma, naturalmente, perché mi sembrava la facoltà più seria, anche se già impazzavano la scuola di Banfi e di Abbagnano – Enzo Paci o Pietro Rossi. (Il mio maestro fu sempre Ugo Spirito, i miei interlocutori, per molti anni, Augusto Guerra e Lucio Colletti). Sgalambro mi seguiva da lontano. Nei miei ritorni a Catania, frequentavo casa Sgalambro, anzi più esattamente la biblioteca di Manlio Sgalambro. In una classica casa anni Venti, tutta ben conservata. La biblioteca, un’austera stanza con mobili a scaffali chiusi con ante di vetro, raccoglieva veri tesori bibliografici. In quella casa, oltre alla signora Elena, padrona di casa sempre gentile, ammiravo il saggio padre di Manlio, don Riccardo, uomo di rara sensibilità intellettuale e mitezza, che aveva il pregio, non ultimo, di difendere il figlio nelle sue scelte non professionali. E nei pomeriggi, quei the offerti dalla signora nel bel salotto liberty coperto di libri e quadri, che mi splende agli occhi della memoria come vera stazione di salvezza, come rifugio! Quella biblioteca io l’ho vista crescere, ampliarsi, fino ad arrivare ai 18 mila volumi attuali. Oggi non c’è più. Forse tornerà come fondo pubblico, ma sarà un’altra cosa. Ma già negli anni Sessanta, devo dire che era una presenza poderosa per un intellettuale. Anzi, direi che la sua preziosità consisteva proprio nella rarezza, ricercatezza e abbagliante unicità di una biblioteca di filosofia – e non solo – dai percorsi speculativi più impervi. Vi ritrovavo il pensiero classico e le vette della speculazione europea entre deux guerres. Non mancava la saggistica filosofica più eterodossa, per quegli anni. Che devo dire, Keyserling, Šestov, Berdiaev, oltre a varie presenze francesi, come Dyonis Mascolo o Vuillemin – quest’ultimo sarebbe stato il mio maestro negli anni sessanta all’école pratique. E las obras completas di Ortega y Gasset. Ernst Bloch e Schmitt vi si trovavano già prima delle traduzioni italiane. E così Lukacs o Levy-Strauss. Per non parlare dei classici, di Tommaso, Duns Scoto, Occam, o di Melchor Cano, Suárez, Charron, autori, questi ultimi, di rara elezione, che poi si trasformeranno in evocazioni emblematiche nella scrittura di Manlio. Era, cioè, una biblioteca in cui il mondo non si era fermato al banale, all’ovvio. E così è stata fino all’ultimo, con autori contemporanei ai più quasi misteriosi. Da quella inesauribile miniera è venuta fuori la prima produzione di Manlio, che oggi conosciamo tutti, ma che in quegli anni circolava tra pochi, quasi clandestina: carte segrete. Mi riferisco non tanto a Crepuscolo e notte o ai saggi – non numerosi – su Tempo presente (ricordo per tutti il saggio su Nečaiev), ma soprattutto ai suoi dattiloscritti che ci leggeva, o ai lavori diciamo preparatori che sarebbero arrivati al Trattato dell’empietà. Ma Sgalambro, questo lumen obscurum, come lo chiamavo allora, presentendogli sempre autentiche chiarezze, in effetti, meditava e scriveva avendo innanzi solo pochi “spettri” – che in anni lontani gli donarono la luce: Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche; ma soprattutto Šestov, Simmel, Bloch o Ramsey, gli uomini postumi dell’Europa di allora. Spesso presenti e sudati nella loro lingua originale, senza mediazioni. Un libro come La morte del sole, che tardò tanto a comparire, è la risposta meditata di un scrittore libero, proiettato verso una resa dei conti con la cultura filosofica circostante: Sartre, Foucault, Derrida, Habermas. Resa dei conti fatta con indifferenza, da cavaliere filosofico. Sgalambro coltivava, inoltre, con rara acribia, i testi di quelli che poi sarebbero apparsi i suoi punti di riferimento negativi, Husserl, Heidegger, lo storicismo tedesco, l’idealismo italiano. Su Gentile, che egli ammirava come l’ultimo filosofo italiano, degno di Husserl, riuscì a dire cose acutissime. Non so però se le abbia messe su carta. Ma che importa! Con La morte del sole, il Trattato e Anatol, egli ha salvato se stesso e un’epoca della vita europea che lo aveva formato. Mentre scrivo, mi appare vivissima quell’originaria biblioteca. E non so staccarmi da essa, dalle sue vere, eterne presenze. E lì è rimasta la mia immagine di Manlio, tra Spinoza e Melchor Cano, tra Stirner e Kierkegaard, tra crepuscolo e notte.