Manlio Sgalambro e l’eterna ostilità cultura-filosofia

Roberto Fai in La Sicilia, 19 aprile 2015, p. 22

Massimo Cacciari domani a Catania “racconta” il filosofo siciliano

«La filosofia non sopporta di essere collocata nell’ambito della cultura. A quest’ultima appartiene lo stomachevole concetto di formazione. La filosofia è estranea a tutto questo. Invano il ricordo della bella unità tra conoscenza e bene affiora alla memoria dal passato, la filosofia invece perverte». In questa icastica affermazione, contenuta nel suo capolavoro, La morte del sole, risiede la cifra filosofica di Manlio Sgalambro. La sua successiva produzione – da Dell’indifferenza in materia di società a Trattato dell’empietà – non farà che confermare questa cifra. Se è pur vero che questa contrapposizione tra “filosofia” e “cultura” trova già in Heidegger il suo precedente illustre, Sgalambro ne radicalizza l’ostilità. La cultura è formazione, concetto stomachevole, digestivo, mera Bildung. La filosofia è, per Sgalambro, un movimento incessante attorno al vero, alla verità. E la verità è ostile alla vita. La filosofia, per Sgalambro, è “pervertimento”.
Un outsider, Sgalambro, fuori da ogni “scuola”, né i suoi pensieri e le sue riflessioni sono ascrivibili a una qualche disperazione letteraria. Non a caso, La morte del sole ha pagine di dura “inattualità”, rifuggendo da “pensieri deboli” e da un nichilismo corrosivo. La sua filosofia, niente affatto consolatoria, non conosce – come Nietzsche – alcuna redenzione. Il motivo di fondo del suo pensiero è contemplativo: uno sguardo freddo e disincantato sulla verità, che è solo una “quiete inquietante”: né progresso, né sviluppo, né avanzamenti.
La frequentazione con Battiato inaugura un nuovo inizio, e questa giocosa esperienza “musicale”, anticipata da una Teoria della canzone, non va letta come un tradimento: la sua vena produrrà altro pensiero, ed è segno del materialismo vitale, che contrassegna la tonalità emotiva della sua personalità, come se la scrittura esponesse l’esistenza, il pensiero la vita, il disincanto l’ironia. Basti osservare la scena finale del film di Battiato Perduto amor. Sgalambro, seduto al bar, nell’assolata piazza di Ragusa Ibla, con quel tono sapienziale che a mala pena cela la natura “doppia” dell’ironia isolana, è assorto nel messaggio che chiude il film: «Questa terra [la Sicilia], come la Ionia di Eraclito e Anassagora, è magica, e richiama sempre coloro che le appartengono. E anche per lui, un giorno, inevitabile, il ritorno: sarà il clima, la luce, l’aria. Comunque…», e sospendendo queste perle di saggezza, eccolo rivolgersi al cameriere con la sorprendente richiesta: «Una granita di mandorla», suggellando, con questo inatteso coup de théâtre, quell’autoironia che trafigge noi siciliani e il nostro nostalgico rapporto con l’isola. Quella Sicilia che pur merita una “teoria”. Un’isola destinata inevitabilmente a sprofondare. “Vanità delle vanità è ogni storia”. La catastrofe sembra incombere nell’anima siciliana, nell’attesa “impaziente di inabissarsi”, al punto che «l’angoscia di vivere rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale».
Sul pensiero di Sgalambro, sarà Massimo Cacciari a offrine un’immagine, domani alle 17, a Palazzo Platamone, con Paolo Manganaro, Giancarlo Magnano San Lio, Caterina Resta e Rita Fulco.