Manlio Sgalambro, a cura di Angelo Scandurra, Il Girasole, Valverde (CT), (maggio) 2014
La poesia al massimo – o al limite – decreta, non descrive. Ammirare l’elegia che ci circonda non comporta che tutto educatamente sia ascrivibile o classificabile. Esiste uno status che travalica e connota oltre l’apparente. È facile impaludarsi nel visibile. Allora la ricerca che coniuga traversie e intelligenza diventa vestigio siderale. Il linguaggio non può evocare il soffio del decoro. Esso affonda anche nell’impoetico (ma cos’è, poi, tale novero?) per riemergere come trasalimento, attraverso il deserto temporale che incarna per farsi espressione di “detti irreali”. Questo testo di Manlio Sgalambro è disseminazione di scandagli e dissezioni perenni che, nell’atto stesso in cui vengono celebrati, si ammantano di sortilegi, dovizie, di dolente irrisione. Si allarga il dileggio della “dannazione eterna” che innerva vita e morte come costellazione di scrittura intenta a “scardinare il suono delle parole” in quanto il “ciclo continua” giacché “nell’atto del pensare si dispone il destino”.
Angelo Scandurra