Carmelo Strano in La Sicilia, 11 marzo 2014, p. 18
De gustibus
Nel darne la notizia, i media hanno fatto il loro lavoro secondo copione: «Sgalambro, filosofo e paroliere di Battiato». La scomparsa di un grande siciliano affidata alla sua ironia, giocata, con gioco esistenziale e creativa assenza di pudore, nello spettacolo. Brutta parola, però. E non solo perché ha la stessa radice di parolaio, termine inflazionato. Paroliere è parola non meno accreditata. Ti fa pensare agli chansonnier di routine tra Cantagiro e San Remo. Risulta insospettabile che, nella fattispecie, chi canta ti propina, senza che te ne accorga, un pensiero profondo che viene dalla stratificazione della storia e dall’auscultazione ostinata dell’animo umano. Non ricordo quanti anni fa. Palazzo della Provincia, Milano. Vado a sentire Battiato nell’ambito dell’elisabettiana (Elisabetta Sgarbi) Milanesiana. D’un tratto sento una cupa voce che ogni tanto cerca il tono squillante. E lui, il filosofo, che intona La vie en rose, un’edizione tanto più avvincente quanto più gracchiata da un francese risciacquato nell’Amenano. Non essendo un concorso canoro, potevi gustarne la musicalità e un’interpretazione supportata da speciale sensibilità. Filosofo, d’accordo, ma che, a mio avviso, aveva trovato, nelle varie forme dello spettacolo, il suo “ubi consistam”. Certo, ammesso che ne cercasse uno. Ma ad ogni modo ora gli si era presentato. Probabilmente esprimersi gli faceva toccare con mano l’opera. Lo aveva scritto con questo succo: la filosofia mette radici se è “opus”. Opera estetica, alla maniera in cui giudicava la Sicilia. Chiuso alla vicende sociali e politiche (bellissimo il suo saggio Dell’indifferenza in materia di società), assieme a pochissimi altri giudicava ormai inefficace (per chi scrive, addirittura nociva) la figura di Sciascia in fatto di mafia (divenuto, a suo dire, una sorta di Silvio Pellico). Per lui, “solo nell’arte la Sicilia è vera”. Cioè, per stare nel suo pensiero, quando la Trinacria si fa “opera” col suo “senso di immobilita divina”. Battiato gli passa sotto il tavolo il punto di riferimento esistenziale, cioè il luogo dello spettacolo e dell’opera. La sua opera, che scrivesse per gli altri o per se stesso: ma creativamente, con impegno estetico. Un’opera meno “antica” rispetto alla sua “allure” filosofica.
Infatti, dalla riservatezza o scontrosità eccolo sciolto davanti al pubblico. Sembra essere stato ad un corso formativo di Renato Gervasi e del suo network psicologico sulla felicità avente per obiettivo il non avere paura di sbagliare. E non ne ebbe, infatti, Sgalambro. Oso dirlo: forse quella brutta parola, paroliere, gli sarebbe piaciuta. Perché appropriata. Adatta a chi, per sua ammissione, cerca di tenersi fuori dalla filosofia, ma finisce col ritrovarsi più filosofo di prima. Ma congenialità piena trova nello spettacolo, trasformato ora in un Socrate sulla scena. Nell’esibizione e nell’espressività ha trovato la compensazione al suo ruolo di “torturatore” della realtà, svolto tra antica universalità (da profondo siciliano fuori dal tempo) e frammentazione contemporanea (su provocazione di filosofi irriverenti che lo hanno tenuto a debita distanza dai “filosofi universitari”).