Ottavio Cappellani in Libero, 7 marzo 2014, p. ❓
Morto il filosofo siciliano famoso per la sua collaborazione con Franco Battiato. Un amico ne ricorda le fissazioni, l’ironia e una ambiziosa opera incompiuta
È morto il filosofo Manlio Sgalambro, nato a Lentini, in Sicilia, il 9dicembre del 1924, è noto – oltre che per opere come La morte del sole – per la sua collaborazione con Franco Battiato, a partire dal 1994. Come autore di testi ha lavorato anche con Carmen Consoli, Fiorella Mannoia, Patty Pravo, Alice e Celentano.
«Mi piacerebbe che di me si dicesse: “Toh, è morto Sgalambro”, e che poi ognuno continuasse nelle faccende della sua vita», così mi disse una volta, con quel suo sguardo torvo, dolcissimo, e pronto alla risata più cristallina e sarcastica che abbia mai sentito. Il suo studio si affacciava su una frequentata piazza catanese. Ogni tanto potevi scorgerlo affacciato: guardava giù, scrollava le spalle, e tornava dentro a sbarrare la finestra. A rintanarsi nella sua biblioteca sterminata e inquietante. Un gufo impagliato la presiedeva e i titoli facevano paura: demonologie, angelologie, apocalissi. «I vampiri esistono. Cioran è uno di loro. Lo leggi e ti dissangua. Ma tu potresti usarlo come una sanguisuga per un salasso».
L’ho conosciuto gia canuto, i segni della varicella incisi sul viso gli donavano un’espressione da paesaggio lunare. Sembrava un’asteroide caduto sulla terra a testimoniare forme di vita extrater-restri. Del lutto sapeva tutto, troppo, per poterne adesso parlare in maniera lut-tuosa: ne fece un libro, La consolazione.
Dell’aldilà non voleva parlare: «Io sono specializzato in Dio, e Dio è specializzato nell’aldilà, sono per la suddivisione dei saperi», ma mi mise in mano un libro di Emanuele Severino: «Qui ci sono alcune risposte. Forse tutte». Dei viventi mi parlava solo di Cacciari e Severino, cioè mi parlava «seriamente» solo di loro. Sentirlo parlare degli altri viventi era invece uno spasso da contorcersi dalle risate.
Un giorno mi telefonò. All’epoca facevamo lunghe passeggiate per la via Umberto bevendo latte di mandorla. Mi disse: «Usciamo». La sua voce era sconvolta, mi preoccupai. Lo trovai già davanti al portone di casa. Indossava un cappotto lungo dalle spalle larghissime. Sembrava un vampirone. Mi guardò terrorizzato e scandalizzato: «Mi hanno appena chiamato da una rivista femminile per chiedermi un’intervista. Cosa faccio? Una rivista di moda, a me! Mi offendo?». Era l’epoca dell’inizio della sua collaborazione con Franco Battiato. Le risate risuonarono tra i chioschi di piazza Vittorio Emanuele.
All’inizio si aggirò smarrito per le scene dello showbiz. Dopo qualche anno mi disse: «È disgustoso come abbia ceduto alla mondanità, ma la verità è che me la sto spassando come non mai. D’altronde le cose migliori le ho scritte anni fa. C’è un acme e poi si decade. Capita a me, capita al mondo, capiterà anche a te».
Al bar dell’albergo Delle Palme, a Palermo, si mise a ridacchiare come un bambino. Dalla filodiffusione si spandeva una musica wagneriana: «Nietsche, Wagner, il superomismo, io ogni volta che sento Wagner mi immagino la banda con le majorettes, è buono per la pubblicità dei circhi». È l’unico essere umano che guardava dall’alto in basso gli déi, ai quali per un periodo la mitteleuropa credette. Quando citava Nietzsche lo chiamava: «L’aquilotto spennacchiato».
Adesso lo ricorderanno, e giustamente, come un filosofo pessimista. Ma niente era capace di riempirti di grazia come la sua ferocia. Non faceva sconti alla vita, non si aspettava nulla, e questo lo rendeva in qualche modo invincibile. «Dicono che io sia duro, invece sono troppo sensibile, se dovessi dar retta alla mia sensibilità mi butterei ai piedi del primo povero che incontro per strada e mi metterei a piangere per sempre».
Con Battiato formava una coppia formidabile. Le colazioni con loro erano uno spasso. Chi non li conosceva restava basito. Per anni, alle 20.30 di ogni sera, si telefonavano per decidere insieme che thriller guardare in televisione. Sceglievano sempre i thriller per la tv tedeschi: «Quelli dove si vede che il protagonista belloccio è lì solo perché è l’amante del produttore». L’indomani, serissimamente, li commentavamo. Esercitavano l’ironia.
La «frammentarietà» del suo pensiero era una posa. Piaceva a Calasso e lui lo accontentava. Ma il suo era un pensiero sistematico: «Mi piacerebbe scrivere un opera in cui sistemo tutto l’Universo. In versi». So che ci lavorava da almeno quarant’anni. «Però non so se voglio pubblicarla». Sarà da qualche parte.
Mi confidò che voleva fondare un quotidiano che parlasse solo di catastrofi: «L’asteroide che forse impatta la terra, il Vesuvio che potrebbe esplodere. L’uomo si accorge di se stesso soltanto di fronte alla catastrofe. Altrimenti si limita a vivere›.