Il filosofo prestato al pop

Gaspare Polizzi in L’Unità, 7 marzo 2014, p. 18

Addio a Manlio Sgalambro colto e catastrofista

Una grande attività letteraria con Adelphi, poi l’incontro casuale con Franco Battiato e la nascita di un sodalizio artistico durato a lungo

Sarebbe forse piaciuto a Manlio Sgalambro, morto ieri a Catania all’età di 89 anni, ricevere quel saluto che Jacques Derrida dedicò a Emmanuel Lévinas nel suo Addio a Emmanuel Lévinas (1995), che in occasione della morte dell’amico si domandava del futuro della filosofia, della possibilità di interrogare ancora, di lasciare aperte «attenzione alla parola o accoglienza del volto, ospitalità e non tematizzazione». O forse non sarebbe piaciuto a quello Sgalambro che apparve sulla scena filosofica italiana con un libro inviato ad Adelphi all’età di 55 anni, La morte del sole, nel quale la morte della filosofia lasciava un orizzonte vuoto di distruzione e terrore. Sgalambro non aveva già allora niente da chiedere al mondo.
Nato a Lentini, la città di Gorgia, privo di lauree e di titoli da esibire, Sgalambro ottenne un’attenzione straordinaria e inattesa, prima da Adelphi che, dopo il primo libro, di successo, ne accolse altri undici, dai titoli inequivocabili: Trattato dell’empietà (1987), Anatol (1990), Del pensare breve (1991), Dialogo teologico (1993), Dell’indifferenza in materia di società (1994), La consolazione (1995), Trattato dell’età: una lezione di metafisica (1999), De mundo pessimo (2004), La conoscenza del peggio (2007), Del delitto (2009) e Della misantropia (2012).
Arrivò anche la fama. I suoi libri furono tradotti in tedesco, francese, spagnolo. Il filosofo si dedicò a una piccola attività editoriale a Catania con la De Martinis, ristampando tra l’altro opere di Giovanni Gentile e di Giulio Cesare Vanini, il libero pensatore condannato a morte nel 1619 a Tolosa per ateismo e bestemmie contro Dio, con il taglio della lingua, lo strangolamento e il rogo.
Nel 1993 incontrò casualmente Franco Battiato, che gli propose di scrivere il libretto dell’opera Il cavaliere dell’intelletto (che racconta di Federico II di Svevia). Da allora Sgalambro, che riteneva ironicamente di aver abbandonato la filosofia rimanendo filosofo, come scrisse in L’impiegato di filosofia (2010), divenne scrittore di aforismi e poeta, e soprattutto intraprese un lungo sodalizio con Battiato. Scrisse quasi tutti i testi del cantautore catanese: libretti d’opera «filosofici» come Socrate impazzito, Gli Schopenhauer e Telesio; i testi di sette album di musica leggera (L’ombrello e la macchina da cucire, L’imboscata, Gommalacca, Ferro battuto, Dieci stratagemmi, Il vuoto, Apriti sesamo); le sceneggiature dei film Musikanten (sugli ultimi anni della vita di Beethoven) e Niente è come sembra e del documentario Auguri don Gesualdo (sul conterraneo Gesualdo Bufalino). E divenne paroliere per Patty Pravo, Fiorella Mannoia, Milva, scrivendo anche note canzoni per bambini, come Madama Dorè, Fra Martino campanaro, Il merlo ha perso il becco. L’ultimo suo libro, Variazioni e capricci morali (2013), è stato pubblicato da Bompiani.
Sgalambro è stato un pensatore «catastrofico». Ha teorizzato e praticato la morte della filosofia, descritta nel suo grande libro teorico – La morte del sole – come l’esito conseguente della filosofia progressiva moderna, dell’intera civiltà moderna: «La civiltà sconta ogni speranza tramutando i sogni dell’uomo in realtà e facendoli vedere bene in faccia». Il terrore che Sgalambro descrive è quello del «pieno» realizzarsi del nichilismo nel mondo. La cifra della sua scrittura filosofica ha affinità con quelle di Emil Cioran, per la graffiante vena aforismatica, e di Theodor W. Adorno, per la «maniera» della sua critica di ogni illuminismo. Ha avversato ogni impegno politico, denunciando le contraddizioni della democrazia e sostenendo icasticamente che «la politica è la tutela dei minorati». La scrittura di aforismi e di testi per canzoni ha reso leggero e ‘digeribile’ il suo nichilismo: «la musica leggera ha questo di bello, che in tre minuti si può dire quanto in un libro di 400 pagine o in un’opera completa a teatro». Ma ha anche fatto meglio apprezzare lo stile e la ‘realtà’ del suo pensiero: «Un ponte che crolla è reale; è in quell’istante che la sua realtà si rivela, mentre per tutto il resto del tempo non si distingue dal sogno in cui ciascuno sogna non di essere re, ma quello che è». La morte di Sgalambro aprirà, forse, alla ‘vera’ conoscenza della sua scrittura, alla possibilità di interrogarla ancora nella durata senza tempo della filosofia.