Addio a Sgalambro il filosofo che diventò poeta per Battiato

Renato Tortarolo in Il Secolo XIX, 7 marzo 2014, p. 30

Le donne non piangono per i filosofi ma li capiscono. Questa volta però sarà diverso. Manlio Sgalambro, morto ieri a Catania, ha scritto La cura, una delle canzoni più belle di Franco Battiato. Credo che le donne si affideranno al ricordo di queste parole: “Ti solleverò dai tuoi umori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali lo spazio e la luce per farti invecchiare. E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te”.
Questa volta un po’ di commozione per un intellettuale austero, arrivato sino a 89 anni giostrando fra pessimismo e ironia, la concederanno. Ora, dire che la collaborazione ventennale fra filosofo e cantautore penda tutta dalle parte del primo per quello che riguarda i testi è esagerato. Ma certamente è stata una coppia fortunata e smart. E Battiato l’ha suggellata così: «È un dolore privato, una cosa molto forte».
Visto da vicino, che poi vale anche per chi lo guardava sul palco, Sgalambro era un uomo tutto d’un pezzo, apparentemente distaccato e subito dopo capace di battute micidiali, tutte sostenute da una grande passione per la poesia, l’altro suo talento, e da una costruzione filosofica che riporta più a Spinoza e Montaigne che a Nietzsche, la boa di chiunque si metta a berciare di pessimismo. In breve Sgalambro pensava che la filosofia dovesse muoversi per le strade e nelle città, quindi fra le persone, ripudiando il suo abito accademico. A un certo punto, dirà: «Ho ucciso in me il buffone, l’apparire. Io sono, l’apparenza mi molesta. Oggi la mia stanza mi basta, ho raggiunto la conventualità. Non ho più vanità».
E ancora: «La filosofia è un romanzo dei ricchi di spirito». E le sue poesie per Battiato erano “essais”, saggi, perché «sono contro i trattati, la sistematicità. È il nostro modo di scrivere». Ma cosa scriveva poi? Quello che prometteva a voce: una filosofia da barricata, come La morte del sole, Trattato dell’empietà o il più recente Variazioni e capricci morali. Nelle canzono cambiava solo la cifra, lo spazio dell’invettiva o della riflessione: in almeno sette album, da L’ombrello e la macchina da cucire, L’imboscata e Il vuoto, e quattro opere, fra cui Il cavaliere dell’intelletto, Sgalambro esprime tutto il suo sdegno per un potere rozzo e incapace di futuro, “come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando”, suggerendo calma e riflessione a chi non ne può più: “Va bene, hai ragione, se ti vuoi ammazzare, vivere è un’offesa che desta indignazione… ma per ora rimanda… è solo un breve invito”.
Avendo scritto anche per Patty Pravo, Alice, Carmen Consoli, la Mannoia e Celentano, si può pensare che ci avesse preso gusto. E invece componeva essenzialmente per sé e per chi invece di filosofeggiare cercava un po’ di verità. Dice un verso di Aspettando l’estate: “anche se non ci sei tu sei sempre con me, e sono ancora sicuro che ti rivedrò, dovunque tu sia”. Bell’augurio. Grazie.