Manlio Sgalambro in Domenico Trischitta, 1999, Il Garufi, Catania, (settembre) 2013, p. 109
Nel frattempo appare quella che chiamiamo, semplicemente, ‘letteratura odierna’. La quale è per lo più una manifestazione della ‘volontà di scrivere’. Volontà intesa nel senso più malfamato, e scrivere pure. Poi c’è una ‘letteratura’ che potremmo chiamare ‘senza tempo’. Da qualsiasi parte o da qualsiasi tempo provenga te la ritrovi dentro. Ma a che pro rinarrare ciò che viene qui narrato? L’ingenuità epica, proprio come tale, sfugge alla finzione letteraria, alle domande sul vero e sul falso. Ti entra nell’anima e te l’accarezza. Ciò ti basti. Tu ascolti, non leggi. E qualcosa in te viene evocato. Le righe di questi racconti di Trischitta sono rivoli preziosi. Acqua lustrale. Sono questi gli effetti che desta. Siano ricordi o sensazioni. Emozioni che sciolgono, per un istante, anche ciò che ha indurito chi è vissuto.
Moralità plutarchee o ‘figure’ della Fenomenologia dello Spirito… In ogni caso la descrittiva dell’autore si inoltra non nell’usuale narrato ormai decaduto, ma è come se ripartisse dall’inferno… La luce viene dopo. Dopo ancora scompare. È come se il nostro si aggirasse nel mondo delle Idee ma prima ancora ne esplorasse la caverna, l’utero generatore. Così le figure diventano paradigmi della nostra vile vita: figure penitenziali. Ma il narrare esatto e puntuale, secondo la vecchia catarsi le riscatta.