Antonio Gnoli in La Repubblica, 4 luglio 2012, pp. 54-55
A 88 anni il filosofo racconta il suo rapporto con la vita a partire dal saggio sulla misantropia
Dall’ultima volta che ci siamo sentiti sono passati alcuni anni. Manlio Sgalambro non è molto cambiato. A 88 anni continua a vivere con saturnina rassegnazione un mondo che, con ogni evidenza, non sopporta. Che amerebbe cancellare con un atto del suo pensiero, dissolvere negli acidi della sua digestione filosofica. Eppure, sbaglierebbe chi pensasse che questo genere di pensatore sia ascrivibile alla categoria degli apocalittici. Egli è troppo sarcastico, e talvolta comico, nutrito di un pessimismo comico, per non capire che il mondo gli corrisponde e che se non ci fosse dovrebbe inventarlo, se non altro per il gusto di insultarlo. I libri che egli scrive ne sono la riprova. L’ultimo dei quali Della misantropia (pubblicato da Adelphi) ha la qualità e la forza di un trattato della denigrazione.
Cos’è che le dà fastidio di ciò che la circonda?
«Che dire? Ciò che vedo intorno stimola in me pensieri d’odio. È sempre un “odio” per la realtà che ci trascina a pensare. Mi rendo conto che pensare è costoso, per questo rivendico la mia personale ascesi mentale. Scrivo libri furiosi ma sono invaso da una calma che somiglia a una distesa di ghiaccio».
Si immagina l’odio come un sentimento pericoloso. L’anticamera della violenza.
«L’odio del misantropo non è violento. È un odio mite, tranquillo, sereno. Quasi annoiato. Ci vuole la calma di Seneca per scrivere l’Hercules furens».
Il sentimento dell’amore non la sfiora?
«Mi lascia indifferente».
È mai stato innamorato?
«Sì, ho ceduto a me stesso. E penso di aver concesso troppo».
Meglio avaro che misantropo.
«Un’avarizia un po’ spirituale non mi dispiace».
Non è un bel sentimento.
«Nei sentimenti ci siamo fermati alle analisi di Max Scheler, al suo sguardo rivolto all’indietro. Il sentimento da solo non mi fa palpitare. Oggi le passioni sono cieche, non conducono più alla conoscenza. L’unica che mi appare ancora fornita di un tratto nobile è l’odio».
Lei scrive: «Chi non odia la propria filosofia non merita di averne una». Trova, a volte, insopportabili e ripugnanti i suoi pensieri?
«Pensare è la cosa più disgustosa che ci sia in un uomo. Come se avesse dei genitali mentali. In effetti, io non penso mai con gioia».
Ci dia una definizione di filosofia.
«Un eccesso mentale che si è trasformato in spazzatura. Il filosofo è diventato un intellettuale acchiappatutto. Avrebbe dovuto restare il più lontano possibile dalla tentazione della polis. E invece c’è dentro fino al collo. Avrebbe dovuto osservare l’accadere da un luogo remoto per comprendere ma non per perdonare».
Schopenhauer, del quale condivide il pensiero, fu misantropo, bilioso e invidioso. Si riconosce?
«Non sono né invidioso né bilioso. Stavo per dire non sono nemmeno misantropo. Tutt’al più fingo di esserlo».
Finge?
«Sì, nella finzione mi giovo di me stesso. Elaboro conoscenza. Ho sempre scritto i miei libri recitandoli in me. Non parlo di un “me” come conquista della coscienza, ma come una sorta di pietra da possedere. Ho sempre detestato le filosofie problematiche. La filosofia deve dare soluzioni. A volte mi sono improvvisato maestro di felicità».
La felicità sulle sue labbra suona come qualcosa di sarcastico.
«Perché mai? Ho sparso la mia “cannabis” per ubriacare talmente l’altro affinché dimenticasse di morire».
La teologia è stata il vaccino per l’immortalità.
«Forse il veleno».
Parla a lungo della figura teologo, senza il quale lei dice Dio non esisterebbe. La morte del primo ha portato anche alla morte del secondo?
«La teologia non è affatto morta. Essa oggi si costruisce inaspettatamente sull’odio di Dio».
Nella sua riflessione non c’è mai un accenno alla teologia politica. Una mancanza o una scelta?
«La teologia politica identifica “Dio” con l’ecclesiastical power. Non mi interessa».
E della politica, in genere, cosa pensa? Cosa le suscita la sua progressiva delegittimazione?
«La perdita della sua reputazione mi lascia indifferente, come la perdita dell’onore di un buon nome. Mi occupo di altro. Ho cercato di indagare non solo l’“Io sono” ma anche l’“Io ho”. E io ho i miei pensieri. Quando penso non sono un civis e neppure un socius. Non devo rispondere a una società né a una politica. Rispondo ai miei soli averi: i pensieri».
Eppure, non ignora di vivere in società?
«La società si ferma sulla soglia della mia stanza. Poi c’è l’uomo con le sue poche relazioni cui arriva la cartella delle tasse».
Le dispiace pagarle?
«Mio padre diceva: “Manlio, le tasse non si discutono, si pagano”. Non riesco a stabilire se una tassa è giusta o ingiusta».
Riesce a stabilire la differenza tra il bene e il male?
«Bene e male sono due decisioni umane. Ciò che li distingue non è mai un taglio netto».
A volte si lancia nell’elogio del cattivo. In che misura vi si riconosce?
«È l’altra metà di me stesso».
Riabilita perfino la figura del delinquente.
«Non la riabilito. Ma considero anche il delinquente, per dirla con Hegel, una figura dello Spirito».
Non capisco se in lei prevalga la paradossalità o la coerenza.
«Paradosso e coerenza non stanno sullo stesso piano. In me comunque si incontrano».
Dal saggismo sofisticato alle canzonette. Da Wagner a Me gustas tú. Tutto è possibile oggi?
«Sì, come direbbe Debussy: “Tout est sauvé ce soir”».
L’ho ammirata su YouTube mentre canta e se la spassa con un’aria tra il serio e il coinvolto.
«Non ho Internet. Mi mondo dal peccato non guardando YouTube. Condivido il punto di vista di Nadia Boulanger che non distingueva l’importanza di Stravinskij da quella di Piazzola. La musica è un solo corpo di suoni che comprende tanto Wagner quanto il Rock».
Vorrà essere ricordato per aver scritto trent’anni fa La morte nel sole o per la sua collaborazione con Franco Battiato?
«Assolutamente per la prima. Come Battiato desidererà essere ricordato per le sue canzoni. Ma il mio rapporto con la musica è indiscutibile. Le canzoni non sono una deviazione dalla retta via. Indossi una maschera e vai per la tua strada».
Com’è una sua giornata? Cosa fa, cosa legge, chi incontra?
«Leggo pochissimo, ma per una questione di dignità. Per lo stesso motivo non incontro quasi nessuno».
Non ha mai dedicato nulla di serio al tema dell’amicizia. Sentimento che detesta?
«L’amicizia mi lascia freddo».
Si avvicina all’età di novant’anni. Le capita di fare bilanci?
«Qualunque età abbia il “vecchio” ha sempre mille anni, non novanta o cento. È un’età che si specchia in se stessa. Comunque non faccio bilanci».
Cos’è la morte per lei?
«Di fronte ad essa ho una forte curiosità e in ogni caso voglio morire come un eroe della vita. Sarà così?».
A parte il dubbio chi è l’eroe della vita?
«È colui che ha vissuto la morte senza averne paura. Finora non ho mai provato paura. Se la provassi la trasformerei in un concetto».
E il dolore non la spaventa?
«Personalmente non l’ho mai vissuto. Quanto al “dolorismo” esso non ha niente a che fare con il pessimismo. Lo lascio a Werther».
Non crede che anche il pessimismo sia oggi una merce troppo diffusa?
«Non confonderei il pessimismo con il piagnisteo o con il dolore. Il pessimismo è la via maestra per vedere il mondo com’è, cioè incompiuto. Per cui quanto alla diffusione del pessimismo, mi sembra sempre poca».
Cosa la intristisce o l’affascina della sua isola?
«Per ogni isola vale la metafora della nave, vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo tædium. Forse è qui l’origine della mia noia. È penso che solo nel momento felice dell’arte la Sicilia sia stata vera».
A cosa sta lavorando?
«A un nuovo libro che intitolerò: Esperienza di un intelletto traviato. Da traviato posso permettermi cose che una persona seria non oserebbe pensare».
Le piace il canagliesco.
«In fin dei conti sono un siciliano doc».