Giuseppe Pollicelli in Libero, 12 gennaio 2012, p. 29
La poesia concettualmente più potente e linguisticamente più forbita che si produca oggi in Italia, dunque la poesia più fresca e più «giovane» (per la vitalità che le deriva dalla lucidissima intelligenza di cui è permeata) è, molto probabilmente, quella di un ottantasettenne siciliano, Manlio Sgalambro. Nato a Lentini nel 1924, filosofo e intellettuale anti-accademico, Sgalambro è un pensatore naturalmente provocatorio, di quella provocatorietà che, lungi dall’inseguire scandaletti salottieri, è figlia di una mente operosa e mai corriva.
Alla sua ricca produzione saggistica e speculativa, che offre momenti altissimi come La morte del sole (1982) e Trattato dell’empietà (1987), e alla sua fortunata attività di paroliere per Franco Battiato, Sgalambro affianca ora un memorabile poemetto, di sublime frammentarietà, dal titolo Marcisce anche il pensiero (Bompiani, pp. 96, euro 9,90). In esso, fantasticando e strologando sulle ultime ore di vita di Kant, Sgalambro esprime il suo dolore composto e ormai rassegnato per la condizione di «morenti» che è propria degli esseri umani e dell’universo tutto. Egli trasforma in finissima poesia il suo accigliato nichilismo per mezzo di sentenze di nettezza cristallina, immagini spiazzanti, dotti barocchismi e virtuosistiche allitterazioni, estenuando le parole e i concetti fino a una sorta di vertiginoso orgasmo, tanto del senso quanto dei sensi.
Assieme attratto e disgustato dalla corruttibilità del visibile, Sgalambro assume che tutto sia organico e perciò, inesorabilmente, putrescente, animalesco, coitale («Marciscono i pensieri come scheletri fetenti, si muovono vermi a frotte…»). Ogni oltre è illusorio, ogni ipotesi di sopravvivenza di ciò che è chimico (meglio: di sopravvivenza da ciò che è chimico) è men-dace. Il solo fine cui sia lecito e opportuno mirare, poiché unico traguardo conseguibile e non chimerico, è l’oblio di sé, l’approdo a un limbo della mente: «Demenza, feto cerebrale di stupita bellezza, stordito io ti anelo, desidero la tua carezza…». È vero: un tarlo potrebbe, se non corrodere, almeno tormentare la rassicurante disperazione su cui, solido, il pensiero sgalambriano poggia; un barlume non spiegato e inspiegabile, un di più che, forse, non si può ricondurre alla materia: «Dalle sconnesse budella del corpo-non corpo, fuoriesce disumamante conoscenza». Ma il tormento è di breve durata: «Schizza ogni dove il convito infranto, pietre su pietre si urtano con forza ostinata. Solo polvere resta».