“Ci restano solo pensieri a brandelli”

Alain Elkann in La Stampa, 23 ottobre 2011, p. 28

Manlio Sgalambro. Poeta e filosofo

L’ultimo libro di Manlio Sgalambro, dal titolo Marcisce anche il pensiero. Frammenti di un poema, sembrerebbe dedicato al grande filosofo tedesco Immanuel Kant. È così?
«L’opera descrive un piccolo lasso di tempo che è quello in cui si disfa e si spappola il cervello. Ho lavorato su questo particolare momento della vita di Kant, ossia quando il filosofo è morente».

Perché questa scelta e questo poema?
«Kant è da sempre un punto di riferimento nella mia vita filosofica. Un uomo che ebbe un’esistenza malinconica, in preda a un costante malumore che scrive di tanto in tanto, come uno strappo, un guizzo. La sua morte è una morte che lo disfa, così ho immaginato che si disfacesse, oltre al corpo, anche il pensiero. Mi è parso di vedere in lui l’esempio di una vita in cui anche il pensiero finisce inesorabilmente per marcire».

Però restano le opere…
«Sì, ma noi le interpretiamo, ce ne appropriamo e quindi appunto le distruggiamo. L’interpretazione distrugge l’interpretazione precedente. Noi viviamo in un’epoca di interpretazione che si sostituisce alla lettura devota che invece è sottomissione. Bisogna entrare umilmente nell’opera spogliandosi di se stesso».

Ma lei, Sgalambro, è un poeta o è un filosofo?
«Io cerco di indirizzare le mie emozioni e continuo a pensare e a vivere proprio perché sto vivendo».

E che cosa pensa, in questi tempi?
«Sto lavorando anche a un libro per Adelphi. Un libro in cui il titolo dice tutto: Distruzione e rovine, riflessioni sul rovinio in cui mi pare di vedere l’ultima parola che può dire un filosofo».

Quindi il suo poema sulla morte di Kant in realtà tratta lo stesso tema, cioè il disfacimento e il rovinio?
«Sì, certamente. Ma uno è un trattato filosofico, l’altro è un libro di poesie».

Il mondo di oggi le sembra molto disgregato?
«È quanto di più evidente si possa dire».

Perché usa più lingue e frasi particolari nelle poesie e nelle canzoni?
«Uso i linguaggi che affluiscono nel mio presente, e così mi restano dei brandelli. La parola italiana che dovrei usare a volte è troppo usata da me e allora cerco nelle altre lingue parole che mi dicano qualcosa».

Continua a scrivere anche canzoni?
«Sì, e con Battiato ho scritto anche un’opera su Bernardino Telesio. Io il libretto, lui la musica».

Qual è il motivo del suo sodalizio con Franco Battiato?
«Insieme ci siamo sforzati di portare la canzone su piani diversi da quelli usati prima. Alcune mi pare abbiano raggiunto buoni livelli. E L’ombrello e la macchina da cucire fu uno dei primi nostri lavori».

Dove e come vive?
«Vivo a Catania, molto rinchiuso nella mia casa, con un progetto che infila i giorni come delle pietruzze e cerca di farne una collana. Non penso alla morte, e così vivo felicemente».

Ha scritto canzoni anche per altri interpreti.
«Ho lavorato pure per Adriano Celen-tano, Carmen Consoli, Fiorella Mannoia, Alice, Milva e Patty Pravo. Scrivo le cose che mi vengono in mente».

In definitiva, si considera intellettuale, un filosofo o un artista?
«Se si può trovare un nesso tra i vari campi mi sento certamente un intellettuale ma anche un artista».

Le piace lo spettacolo?
«Calcare un palcoscenico è un’esperienza che ho fatto per 12-13 anni. Oggi ho 87 anni, ma lo faccio ancora perché la trovo estremamente vitale».

E come vede la sua terra?
«Io ci sto bene. Ho scritto una teoria sulla Sicilia che ritengo ne sia un po’ l’emblema. Nell’Ottocento e qualcosa c’erano ancora i Borboni e al largo di Marsala una mattina presto si sentì un gorgoglio nel mare, un gorgoglio strano. Vicino alla riva di colpo spuntò tra le mille bolle e le onde un’isoletta. Le autorità si precipitarono a guardarla, dovevano trovarle un nome e mettervi una bandiera per annetterla al regno borbonico delle Due Sicilie. Ma all’indomani vi fu un altro gorgoglio simile, un altro movimento di mare accanto alla riva uguale a quello del giorno precedente, e l’isola scomparve. Questa è la metafora perfetta della volontà di sparire tipica dell’isolano».

E lei Sgalambro non vuole sparire?
«Siccome lo devo fare, lo voglio, come dice Marco Aurelio: “Voglio ciò che vogliono gli dei”».

Si definirebbe pessimista?
«Ultimamente più che un pessimista mi sento un terrorista mentale, uno che come i bombaroli cerca di collocare piccoli esplosivi e non si appaga di cose pacate. Per questo lotto continuamente contro la catarsi continua che c’è nello scrivere».

Come definirebbe il suo poema Marcisce anche il pensiero?
«Ho adorato pensare per tanto tempo, e ora ne voglio vedere il cadavere prima di morire».