Manlio Sgalambro in Catania. Non vi sarà facile, si può fare, lo facciamo, ANCE, Catania, 2010, pp. 49-50
Cos’è una nazione? Anzitutto ciò di cui si sono dimenticate le origini. Non appena ci si ricorda di ciò di cui essa è fatta – le diverse storie, le etnie, le economie diverse e i suoi diversi livelli – scoppia una bolla d’aria o come una bomba. Anche qui bisogna dimenticare, dunque, da dove si proviene. «L’oblio, e dirò persino l’errore storico» scrive Renan «costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione…» (Ernest Renan, Che cos’è una nazione?). Ed è anche ovviamente, un fattore indispensabile perché ne persista un caldo sentimento. Bisogna vivere nel proprio paese come se non vi si vivesse. Solo allora esso si confonde con il cielo e con la terra, con l’aria e gli altri elementi, si confonde col mondo. Vediamone adesso un altro lato. «Nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività» scrive Hannah Arendt «né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla del genere. Io amo “solo” i miei amici e la sola specie di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone» (Hannah Arendt, Ebraismo e modernità). Anche questa impossibilità di amare la «nazione» descrive bene la nostra situazione davanti a essa. Da un lato affinché una nazione esista bisogna dimenticare che esiste. Dall’altro, essa non si può più amare. L’impietoso sguardo nominalistico la elimina dalla sfera dei nostri affetti. Il concetto di nazione subisce dunque lo stesso tracollo subito dal concetto di umanità. Il concetto di una umanità discontinua subentra a quest’ultima. Mentre “l’umanità” si dissolve e si va trasformando in bande di individui vaganti accomunati da uno stesso presente, questa divisione in bande si prospetta per la stessa “nazione”. Noi possiamo chiamare “umanità” con convinzione solo un certo stato presente di essa. Ma questo, come dissolve l’umanità così dissolve la nazione.
Essa non viene più vista come durata, bensì in simultaneità.
Ma senza durata l’idea di nazione tende a perdere la sua unità temporale, cioè il modo come era vissuta finora – come unità di passato, presente e futuro – e si trasforma in un minaccioso aggregato. (La minaccia è maggiore perché deriva da una unità preesistente. Più si è vissuti insieme, più è pericoloso separarsi). Questa unità temporale, che forma la colla di una nazione, si disgrega. è essa che prima di tutto viene meno. Non ci si separa se prima la stessa unità di tempo non si è frammentata, dispersa. E, dalle macerie, rimane solo l’odioso presente. L’unità temporale, dicevamo, si disgrega. Il passato affluisce, ma come privo di ogni altra dimensione. Senza prospettiva, senza quel “futuro” che portava in sé o sembrava portare (e che fece comunque di quell’aggregato una nazione). Ora affiora come inimicizia, come contrasto o guerra degli uni contro gli altri. Ciò che fu una volta. Ora comincia la reculade, la sauvagerie: la nazione si inabissa. Quando crollò la polis, scrive un filosofo dell’Ottocento, «I filosofi respirarono e si sentirono togliere un gran peso dal petto». L’ideale del filosofo non è più Socrate, ma Diogene: senza città, senza casa. Senza patria. Un nomade. Agli Ateniesi che vantavano la nascita dal suolo patrio un altro filosofo rispose che essi condividevano questa gloria con le lumache e con le cavallette. Siamo nella stessa situazione. I contorni morfologici di quest’epoca ci consegnano mani e piedi a un ellenismo di ritorno. L’amore per il luogo in cui si nasce è un sentimento in più. Ogni radice è di troppo. L’idea di patria, l’idea di nazione, sono ormai idee patetiche. Il suolo dell’origine è maledetto come l’ora della nostra nascita. O indifferente come quello delle lumache.