Intervista a Manlio Sgalambro. Filosofo “edificante” dei nostri giorni

Irene Giuffrida in Lapilli, n. 21, ottobre 2009, pp. 8-9

La Filosofia non è per tutti, e il pessimismo è il suo giusto metodo. Dio è un nome che circola e la Sicilia è una Moby Dick che periodicamente tende ad inabissarsi. Queste e altre le provocazioni di Manlio Sgalambro, filosofo tra i più letti del panorama editoriale, reso famoso nel mondo dello spettacolo dalla collaborazione con il cantante Franco Battiato. Lo abbiamo incontrato nel suo elegante appartamento al centro storico di Catania, circondato dai suoi amati libri.

Parliamo della sua collaborazione con Battiato: com’è avvenuto questo incontro con conseguente sodalizio artistico?
Sentii il nome di Battiato per la prima volta dieci anni prima della nostra collaborazione. Avevo concesso al Corriere della Sera un’intervista sulle condizioni della Sicilia, schierandomi contro la Cassa del Mezzogiorno e la politica del mantenimento dei siciliani. Dichiarai che solo lasciati a se stessi i siciliani avrebbero trovato un nuovo slancio. Queste affermazioni suscitarono dibattiti e indignazioni e L’Indipendente, giornale di destra che allora si stampava a Roma, realizzò interviste a siciliani illustri su questo tema. Tra i vari nomi lessi quello di Battiato. Lo conobbi poi alla presentazione di un libro di un nostro comune conoscente. Mi chiese di riceverlo e collaborare.
La nostra prima opera fu Il cavaliere dell’intelletto, libretto che mi fu commissionato dalla Regione siciliana e che Battiato musicò. A mia volta gli proposi un disco di musica pop; nacque così L’ombrello e la macchina da cucire (titolo tratto da una famosa opera del pittore surrealista Max Ernst). All’interno di questo lavoro c’erano canzoni un po’ strane e fuori dall’ordinario come Breve invito a rinviare il suicidio. Il disco non ebbe fortuna di vendite ma costituì un salto di qualità per entrambi; dimostrava che è possibile fare musica su un altro livello.

Come si svolge la vostra collaborazione e quali progetti state preparando?
La nostra collaborazione può avvenire di persona, per telefono, fax e continua in una perfetta intesa. Ciò che la fa funzionare è il suo perno: il lavoro. Continuiamo a darci del lei, e questo consente di mettere dei limiti. Darsi del lei è impeditivo di tante cose, del resto persino i più nobili coniugi francesi si danno del lei, e questo giova molto. Il teatro Rendano di Cosenza ci ha commissionato un’opera sul filosofo Bernardino Telesio, da realizzare per il 2010. Mi piacerebbe strutturare il lavoro su cori, un tentativo in versi da discutere con Battiato, che non credo voglia realizzare una lirica classica. Altro progetto su cui lavoreremo insieme a partire da settembre è un film su Gesualdo Bufalino, commissionato dalla Regione, impegno che ci siamo assunti con estremo piacere in quanto era un amico, oltre che un amico delle nostre intelligenze. Per quanto mi riguarda, invece, ho già ultimato il libro Del delitto, che uscirà a settembre in edizione Adelphi.

Cosa significa essere un “filosofo edificante”, denominazione che lei stesso ha usato per indicare la sua attività?
Mi sono dichiarato filosofo edificante, tale cioè per aiutare, per edificare gli altri, filosofo per i morenti, non per i viventi. La filosofia, infatti, è utile per quelli che stanno per morire. Che se ne fanno quelli che stanno per vivere?

Si ostina, come lei stesso dice, a esaltare la dignità del filosofo nonostante il suo rapporto contrastato col mondo accademico. Ha parlato di una filosofia che può essere in ogni luogo, lì dove si pensa, che non ha quindi nella cattedra o nel convegno la sua sede naturale. Che importanza riservano il nostro tempo e la nostra collettività sociale a questa disciplina?
In questo momento, in Europa, si ha una scarsa passione filosofica, e da qui nascono persone demotivate, piccole carriere. Nelle Università si insegna Storia della Filosofia, la quale è una contradictio in terminis poiché è un genere essa stessa, nata in un suo tempo, l’Ottocento, e che poi si spegne nel Novecento. Abbagnano, ad esempio, (n.d.r. filosofo italiano autore di un noto manuale di liceo) parla di filosofia, ma non trasfonde nell’altro l’impulso a capire: il suo testo di storia della filosofia è una tomba in cui vengono seppelliti quelli di cui parla. Il pensiero di Schopenhauer è stato poi ridotto in piccoli libretti, editi Adelphi, che dispensano saggi consigli; si potrebbe pensare che è sempre meglio che ignorarlo, ma io dico che non è così. Meglio ignorarlo. La filosofia non è per tutti. È qualcosa di prezioso, che va trovata così come la trovai io, per caso, ferendomi anche, e scontrandomi con problemi che richiedevano una risposta urgente. A quei tempi c’era il fascismo e sorgevano problemi vitali; la filosofia era l’unica cosa che ci consentiva di poter discutere, parlare, cercare soluzioni. In questo momento storico purtroppo non c’è alcun amore per la ratio. Basti pensare a quel 33% della popolazione che si affida alla reincarnazione, alle religioni orientali, testimoniando un vero e proprio ritorno all’animismo.

Emerge in opere come Dialogo teologico (Adelphi, 1993) il suo interesse verso le questioni religiose. Che rapporto ha col sacro?
In De mundo pessimo (Adelphi, 2004) c’è una lettera sull’empietismo, nucleo di una teologia per i nostri tempi che, in qualche modo, torno a rielaborare nel Trattato dell’empietà (Adelphi, 1987). Si può credere a Dio ma non in Dio. Credere a Dio indica semplicemente prendere atto che nelle nostre civiltà circola un nome che ha dato luogo a grandi opere dell’intelligenza teologica e verso cui non si può che avere un grande rispetto. Il mio interesse verso le religioni è una passione che si risveglia spesso come studio di questo concetto, il Nomen Dei, il fatto misterioso, cioè, di un nome che circola attraverso le civiltà, questione che non ho indagato né da credente né da miscredente. Le due possibilità legate a questo concetto sono la fede oppure la mancanza di fiducia. Personalmente sono tra quelli che non hanno fiducia, non fede nel senso del credere all’esistenza, ma fiducia, sono cioè tra coloro che non si affiderebbero a un principio di questo mondo.

Lei professa un pessimismo metodico. Nell’opera La conoscenza del peggio (Adelphi, 2007) afferma che i pessimismo onora la verità e produce un miracolo, ci consente cioè di conoscere il mondo e quindi di vivere al suo interno in maniera più lieve.
Non potrei professare l’ottimismo. Il punto è evitare, tuttavia, il sospetto che questo pessimismo dipenda da fatti personali. Io non sono infelice, ho superato l’età dell’infelicità da moltissimi anni e mi sono presentato alla filosofia dopo essere passato attraverso la vita. Non sono mai stato una persona che vive attraverso i libri, non sono mai stato appagato solamente dal libro.

Parliamo, adesso, della Sicilia. Sul finale del film di Battiato Perduto amor, lei recita: “Questa terra è magica e richiama sempre coloro che le appartengono come se esercitasse un diritto, la legge dell’appartenenza”. Che rapporto ha Manlio Sgalambro con la sua terra d’origine?
Mi definisco “imbarcato” in questo singolare naviglio. Così vedo la Sicilia: un’entità talattica, una creatura del mare che solo apparentemente è ferma, come ogni isola che si rispetti. Nel ventre di questa strana Moby Dick pullula in realtà la vita, una vita a sé che va oltre i suoi abitanti.

Quali sono i mali peggiori che affliggono la Sicilia?
Per certi aspetti non li vedo: sono un esteta. Li osservo come caratteristiche: alcune sono endemiche e strutturali al fatto di essere isolani, prima tra tutte il nostro silenzio. Ho poi osservato un’altra situazione che ritorna nel tempo: Catania periodicamente si impicca. In questo momento direi che è in stato di suicidio, senso di una vecchiaia infelice…