Giuseppe Testa in La Sicilia, 29 settembre 2009, p. 20
Il nuovo saggio del filosofo Manlio Sgalambro affronta l’ontologia dell’omicidio: «L’uomo è mortale non significa che l’uomo muore, ma che l’uomo è datore di morte»
Chi è Isabelle? E perché progetta di uccidere il Maestro? Eppoi, progetta davvero l’omicidio o se lo immagina? Ne dà l’imitazione? O una proiezione? Oppure, la sua è costruzione mentale?
La vertigine data dalla lettura dell’ultimo libro di Manlio Sgalambro, «vecchio schopenhaueriano» per auto-definizione, tenacissimo esploratore dell’identità fra il mondo e il male, non va disgiunta dalla stupefatta levità indotta dalla presenza, indiscreta e misterica, di quest’allieva «che presto ricusa il suo ruolo» e, «con piedi leggeri, piedi di donna», conduce sulle piste di una vera e propria ontologia del delitto. L’uomo è mortale – scrive il filosofo – non perché muore, ma perché dà la morte.
Qui, però, c’è un’assassina. Almeno in effigie. Dunque, chi è Isabelle?
«Una con cui discutere. Come Platone disponeva del nome “Socrate”, e Aristotele del nome “Essere”, io ho disposto del nome “Isabelle”».
Non vorrà dare a intendere che il suo genere, il sesso, sia del tutto secondario…
«Bisognava che avessi un po’ di complicità. Ma una complicità senza civetteria. Bisognava che fra noi ci fossero degli amplessi. E occorreva che dai nostri amplessi zampillassero pensieri. Non volevo scrivere un saggio cinturato di dottrina. Non mi piace l’orto conchiuso delle citazioni. Semmai, volevo concludere a gradi: uno scalino dopo l’altro, senza troppa fatica, passando dall’immaginazione del delitto alla speculazione sul delitto. Isabelle ha fatto le scuole dai gesuiti. Ha frequentato la morale dell’intenzione. E la sospensione della confessione dopo il peccato. Molto poco dostoevskijana. Quel che ci voleva, insomma».
Ci voleva Isabelle. Ma era proprio necessario incontrarla a Parigi? Non si è già visto?
«Potrei rispondere che Parigi è la città che consacra l’omicidio. Lasciamo stare Balzac e Hugo. Basti por mente alla ghigliottina: è strumento che uccide chi ha ucciso. Sì, Parigi sta al delitto come Manchester al Capitale di Marx».
È là che cominciò l’età del delitto?
«Com’è noto, il piano della storia, come quello della vita, è qualcosa che ogni filosofia rispettabile si lascia alle spalle. Qui si trattava di verificare la possibilità di formulare una teoria dell’uccisione dell’uomo. Dirò meglio: occorreva sondare se fra l’assassino e la vittima non potesse esserci riconciliazione. Non la riconciliazione di Raskol’nikov, beninteso, che passa attraverso l’espiazione. Non questa riconciliazione, ma la riconciliazione degli opposti. Sì, proprio in senso hegeliano».
Non aveva già dichiarato guerra alla dialettica?
«Hegel è stato il primo a conferire dignità filosofica al tema del delitto. Ci arrivò attraverso i grandi assassini scespiriani. Prima di Hegel, il solo Aristotele aveva parlato di una modalità dell’Essere che è quella dell’essere ammazzato. Ne aveva parlato nella Metafisica, si badi. Fra Hegel e Aristotele, un balbettio di qua, un aforisma di là. Acutezze morali. Illuminazioni esteti-che. Nulla di più. Né di meno. Eppure, già Socrate pose la questione nei termini essenziali».
Il Socrate di Platone?
«Di Platone e di Nietzsche. Se la vita di Socrate è parte integrante dell’importanza di Socrate, come Platone la intese, allora va dato il massimo rilievo al fatto che Socrate morì assassinato. Perciò, ha ragione Nietzsche quando dice che “Socrate volle morire”. Ma chi, come capita a tutti i saggi, vuole morire si trova, comunque, intrappolato dalla volontà di vivere. Per questo, il suicidio, da un punto di vista speculativo, è una risposta incompleta. Quanto a me, l’ho capito dopo aver vissuto per anni in compagnia di una pistola».
E allora?
«Allora, ecco che Socrate delega al suo giustiziere il compito che non saprebbe portare a termine. Attenzione, però! Per questa stessa ragione, chiama il suo assassino un “benefattore”. La parola greca non ha altro significato: benefattore».
Sarebbe questo il momento della riconciliazione?
«L’assassino e la vittima restano, per un momento, l’uno di fronte all’altro. C’è una sospensione. Il momento è carico di mistero. Giacché anche la filosofia, come la fede, contempla i suoi misteri. E se l’assassino non recasse la morte se non a chi, nella misteriosa profondità del suo essere, la desidera?»
Un bel tema, non c’è che dire, per la pletora di giallisti che c’inonda da tutte le parti…
«Ne convengo. Ma fino a un certo limite. Il problema del “noir”, in fondo, non è che il problema dell’investigatore. Tutto converge verso l’indagine e il suo sacerdote: il detective».
Secondo Chandler, Hammett non scriveva libri gialli «per procurare un cadavere al lettore». Anche Simenon, il Simenon senza Maigret, faceva lo stesso. O no?
«Il “noir” classico, in specie quello americano, ha vissuto l’età del delitto. Non c’è dubbio che ne abbia avuto la piena consapevolezza. Aggiungo che ha traghettato fino a noi questa sua specialissima coscienza. Ma…»
Ma?
«Mi corre l’obbligo di dirlo: con Isabelle non si è neppure tentato di frugare enigmi, più o meno dozzinali, di sciogliere intrecci, più o meno verosimili. Non è affar nostro. Ci si è occupati di cose al limite. Ci si è intrattenuti con misteri. Sono i misteri di cui si fa carico la filosofia. Quando non diventa banalmente “cultura”, la filosofia certo non guarisce i mali, come delle volte succede al medico. Però, di mali tratta: al modo dei medici».