Nadia Boulanger e l’ethos della musica

Manlio Sgalambro in Bruno Monsaingeon, Incontro con Nadia Boulanger, RueBallu, Palermo, (ottobre) 2007, pp. XI-XV

Ripetere la propria vita davanti a un altro, quello che si chiama ricordare, vorrebbe esserne alla fine una ripetizione all’infinito. Quel ricordare proposto da Proust al posto dell’immortalità perduta. Ma un ancora una volta detto davanti a un testimone dovrebbe mettere in guardia su chi lo pronuncia come se costui volesse perpetuarsi con poco e su chi lo raccoglie.
Ma la cara signora riceve il suggello da ciò che essa fece – semplicemente insegnò -. Termine che non dice tutto, soprattutto in tempi come i nostri, su ciò che significa insegnare. La Boulanger ebbe grande stima per lo Hindemith, quale pedagogo di musica. In Unterweisung im Tonsatz, l’abile compositore impernia le sue istruzioni sull’abilità. «L’abilità non può essere mai abbastanza grande, anche il più autorevole maestro potrà sempre imparare ancora». Ma forse la sua più intemerata azione pedagogica fu l’avere dipinto un paio di baffi sulla maschera mortuaria di Beethoven (episodio che rammenta Adorno in Introduzione alla sociologia della musica). Uno sberleffo, cioè. Per il resto egli fu un esperto di musica e da esperto compose. Cosa significa che un compositore può imparare ancora? Che egli ingurgiti cultura a tutta forza, e affidi a questa la sua forza compositiva, può essere questo il segreto che egli ci rivelerebbe? O meglio, questo il destino riservato ai compositori? In realtà sembra la raccomandazione di coloro che perseguono una ricerca all’infinito e a cui si deve rispondere: signori, noi siamo finiti e quindi dobbiamo dare una risposta qui e ora o mai più. Ecco dunque il destino del compositore. Comporre ora o mai. Con i mezzi che gli sono dati e l’arditezza di lanciarli al di là. Stravinskij ha preso da tutti come un furfante o un avvocato (l’unico suo titolo secondo la Boulanger), ha violato tutti i limiti possibili, ma ha obbedito alla sua anima sognante, come uno scolaretto. Insegnare significava per la Boulanger insegnare al futuro compositore a cogliere il suo attimo. Arricchirne la cultura era un accessorio. Ma poniamoci ancora una volta la domanda, capitale per la Boulanger, cosa significa insegnare? Cosa significava insegnare per lei? Portare a un punto in cui la musica stessa sarebbe stata la vera insegnante. A questo punto invero Mademoiselle si fermava. Qui non c’era più dove andare. Dove andare era già comporre, e questo non le apparteneva. La consapevolezza della Boulanger stava nei limiti che vi poneva, nel fatto di sapere qual era il momento in cui doveva porli. Il compito dell’insegnare è limitato: questa era la sua ferma consapevolezza. Del resto la teologia ce lo insegna: se Dio non avesse creato un mondo limitato non ci sarebbe stato nessun mondo. La Boulanger sa benissimo che senza limiti la musica non andrebbe da nessuna parte. Sa che suprema sfrenatezza e obbedienza fanno parte del comporre che osa e li ammira in Stravinskij. Ma sa anche dubitare di se stessa. La noia che le provoca la Lulu di Berg, è la noia che le suscita quest’opera, oppure? «Se mi annoio, sarà che porto la noia in me e quindi condanno me stessa». La santa donna mette a nudo la noia davanti alla grande musica dodecafonica e post con cui ancora si reagisce davanti a essa. L’indifferenza che coglie come una peste ancora oggi l’ascoltatore di Schönberg che non trova in se stesso l’inascoltabilità del compositore, non la trova nel suo povero ascolto, mentre la trova disinvoltamente in questi. La Boulanger sa una semplice cosa che dovunque c’è musica quella è musica anche se fosse di un organetto di Barberia o di quattro tzigani che sviolinano in un lurido locale una malinconica aria dei loro paesi. «Quello che non riesco a comprendere bene, è perché dovrebbe esserci differenza tra un capolavoro di Mozart e un pezzo riuscito di pop music». L’incomprensione della Boulanger è una comprensione superiore.
L’avvento dell’oscura età degli interpreti è da lei affidata al fuoco della dannazione. Parole memorabili colpiscono questa genìa: gli interpreti. La loro signoria sulla composizione. La Boulanger sublima l’interprete che sparisce davanti a un’opera. L’elogio della dimenticanza dell’interpretazione a profitto dell’opera le restituisce il giusto primato davanti al culto della personalità. L’esecutore trasmette, essa dice. «Quando suono Tristano non penso a Wagner e neanche a Furtwängler che dirige. Penso a Tristano». Anch’io quando eseguo le proposizioni dell’Ethica nella mia mente non penso a Spinoza. Esse fluiscono come da una fonte di luce e si precipitano fuori ma non sono di nessuno. Anche qui, nell’Ecclesia Philosophica, si opera con regole che la cosiddetta interpretazione svilisce soltanto. La liturgia di opere come l’Ethica si deve eseguire come uno spartito. Quando s’intende la musica come un tonificante c’è ancora in chi l’ascolta l’eccitazione del buon ascoltatore di marce. La banda che passa per le principali strade del paese porge un salutare buongiorno e tutti ci si sente meglio. Quando ascolto musica, vorrei sparire per sempre, dice invece la Boulanger. Cosa voglio dire? Che quella della Nadia era ciò che altrove ho definito «Un’esistenza musicale». Esistere musicalmente significa esistere nei suoni. Esistenza musicale non è ipso facto il Musikant, colui che suona uno strumento o dirige un insieme di strumenti ma chi esiste e non vive che per il suono, attraverso il quale il mondo stesso gli appare come una totalità di fini. Questa scempiaggine, il mondo dico, gli appare a un tratto pieno di senso. Padre mancato della musica dionisiaca, Nietzsche è invece il padre – o parente stretto – della musica leggera. I suoi Lieder bolsi e borghesi, non lo farebbero sospettare. Ma il suo scritto Nietzsche contro Wagner è lo spartito in cui scorrono i suoni di Dioniso, promettenti ma muti. Nietzsche padre della musica leggera. Se è così essa ha un padre terribile. Nadia Boulanger ha concesso alla musica leggera il suo visto. In realtà essa ha capito che c’è un punto in cui tutti i suoni si toccano e risuonano. Se il Tango è musica leggera (io non lo so, ma mettiamo), allora la Nadia le diede il benvenuto nella Musica quando indirizzò Piazzolla verso il suo destino. Ma nello stesso tempo schiuse le porte alla musica dionisiaca. Alla musica leggera. Il bello musicale è missato in suoni dosati come il solletico cinese: un po’ più ed è la tortura. Il bello musicale invece tortura con delicatezza. Sa quando fermarsi. Ma ogni bello ha avuto la sua misura. Se esso non fosse addomesticato ci sbranerebbe. La Boulanger non ne dubita un momento. La libertà, in musica, non può esistere che in relazione alla regolarità, e alla severità ma mentre la nostra Nadia adopera la sua pedagogia come uno stivaletto spagnolo, dentro di sé essa è come una farfalla.
Mentre domina le furie musicali dei suoi cuccioli come una domatrice, con una invisibile frusta, questi crescono a dismisura. Le sue pastoie appartengono allo spirito della musica. La musica dell’uomo non ha nulla a che fare con il canto degli uccelli. Per la Boulanger la musica è ordo ordinans. Il più piccolo nucleo di un sistema musicale dà ordine al mondo. Questo essa insegnò ai futuri compositori e maestri che la seguivano. «Che l’Essenza sia data al vedere» ho detto da qualche parte «A un vedere superiore o come Logos parli, e quindi che l’Essenza sia parola ciò è arcinoto. Che l’Essenza si oda, questo dà alla musica il suo spazio nei cieli». Thomas Mann ha definito la musica una Idea acustica. «Che essa sia l’Idea acustica dell’essere, è più appropriato», ho commentato. Sono sicuro che qui avrei dalla mia la Boulanger. Essa aveva i suoi dubbi sulla filosofia della musica una di quelle discipline che si installano al posto di ciò di cui si dicono filosofie. Ma essa aveva l’ascolto. Davanti a una musica diceva ascoltate. Solo l’ethos dell’ascolto ci dà le sue chiavi.