Sgalambro: «Gli adulti sommersi nella palude»

Giuseppe Testa in La Sicilia, 16 marzo 2007, p. 2

«Giovani violenti? Parliamo piuttosto degli adulti». Se non facesse di mestiere il provocateur, Manlio Sgalambro che razza di filosofo sarebbe? Il suo prossimo libro, ormai in uscita, si occupa de La conoscenza del peggio, giacché «la filosofia ha sempre pensato il meglio. Anzi, l’ottimo. Ma Platone dice: del peggio bisogna sapere. Sono partito di là».

Allora, partiamo dal peggio degli adulti.

«Le notti violente dei giovani sono molto più regolate dei giorni malmostosi, sregolati, di noi uomini maturi».

Notti regolate?

«Se parliamo del fenomeno violenza, non posso esimermi, anzitutto, dal prenderne le distanze per osservare la cosa in sé. Di norma, la violenza dell’uomo è dominata dalla regola: dai gladiatori ai pugilatori, dai toreri ai guerrieri, non c’è violenza che non sia ordinata da regole. La violenza diventa ferocia quando, appunto, viene meno ogni regola».

E questo dipende da noi grandi?

«Da chi altri, sennò? Prendiamo la guerra. Non c’è più guerra che soggiaccia a una regola. I Talebani combattono una guerra senza regole. Non fanno forse lo stesso gli Americani? Il terrorismo copre tutto con una coltre giustificazionista. Pensi solamente ai sistemi di sicurezza negli aeroporti… Siamo costretti a ispezioni personali a mani alzate, a smettere scarpe e guanti, a depositare le impronte digitali, a essere palpati… Non è coercizione questa? Viaggiare l’America, per un cittadino europeo, significa entrare in un rituale di violenza».

Anche la violenza giovanile – allo stadio, in discoteca, a scuola – pare obbedisca ai suoi rituali…

«Con una differenza, però. In quel caso, le tappe del rito, le sue regole, stanno dentro la violenza stessa, non fuori di essa. L’anti-terrorismo, invece, implica forme di violenza rivolte all’interno della comunità – in qualche modo, contro di essa – e praticate come sistema di difesa dalla violenza esterna. Ma c’è una violenza indotta dall’apparato repressivo. Lei diceva: lo stadio… Veda, io non credo affatto che schierare allo stadio mille poliziotti in assetto di guerra sia uno spettacolo privo di conseguenze».

Beh, a Catania, uno di quei mille è stato ammazzato…

«Appunto. Mi si capisca: non voglio dire, naturalmente, che quell’omicidio sia correlato allo spiegamento di forza pubblica inteso a prevenire fatti violenti anche meno gravi di quello accaduto. Dico che l’idea di aggiustare il mondo secondo Logik und Polizei, è precisamente un’idea pericolosa. Se il principio di non contraddizione sterilizza la libertà del pensare, l’ostensione di scudi, elmetti e manganelli alla partita di calcio può avere effetti sulla natura del gioco».

Lei riesce a immaginare uno stadio senza la sorveglianza di un solo questurino?

«Certo che no. Posso immaginare, però, prima che intervengano prefetti e questori, il lavoro di educatori che insegnino ai ragazzi ad ammirare la bellezza del gioco del calcio. Di questo si tratta, in fin dei conti».

Dell’educazione o della bellezza?

«Dell’una e dell’altra. Ammesso si dia il caso che vadano disgiunte. Ci sono i Bronx, certo; ma la violenza nei Bronx la portiamo noi tutti».

Vorrei scendere in dettaglio. Lei crede che il caso Catania abbia una specificità propria?

«Se ce l’ha, bisognerebbe legarla ad altre specificità. Mi vengono in mente quei sociologi che definiscono liquida la nostra epoca. Liquida? Direi, piuttosto: oleosa. Si ondeggia come turaccioli su una marea vischiosa, squamosa. Non ci sono fondamenta solide, né modelli di riferimento. Ci sono mode. Ma alle mode, diceva Hegel, bisogna stare attenti: possono essere età dello spirito. I giovani annaspano? Può darsi. Qualche anziano, in compenso, è già sommerso dalla palude. Non abbiamo ancora avviato le opere di bonifica».

Da dove comincerebbe?

«Dal principio di autorità e dal principio di responsabilità. L’autorità è credibile – direi, amabile – in quanto è autorevole, non autoritaria. Ad essa si aderisce spontaneamente: non per timore di punizioni, ma per amore di esempi. Quanto alla responsabilità, è sempre individuale. Genitori o insegnanti che non trasmettano simili principi, hanno già abdicato al ruolo».

Alcuni insegnanti del liceo “Spedalieri” di Catania hanno scritto che la scuola non deve offrire valori agli studenti, bensì fornire il metodo che li aiuti a trovarseli da sé.

«Insisto: è un’abdicazione, una forma di sottostima, di auto-svalutazione, del lavoro di docenza. L’educatore che fa della paidéia una pura questione di metodo, rinuncia alla metà del suo compito».

Perciò, molti genitori, in fatti e fattacci scolastici, danno quasi sempre torto ai professori e quasi sempre ragione ai figli?

«Non ho molta fiducia nella famiglia in queste faccende. Chi dà la colpa alla famiglia in queste cose, non sa cosa dice. O, se lo sa, ne discorre annoiato. La famiglia oggi è un luogo di controversie, di dispute: fra coniugi, ex coniugi, o separati potenziali. La scuola, sì, può trovare il modo di uscire dal pantano».

Come?

«L’educazione ridiventi formazione. Le faccio un solo esempio: tutti i ragazzi che conosco parlano inglese con la stessa abilità con cui battono i tasti del pc. Sarà un vantaggio, ma non è un merito. Chi sa qualcosa di Shakespeare? Diffondere una lingua, senza la cultura diffusa in quella lingua, è educativo forse, ma certo non è formativo».

Ammesso che siano tanti i docenti d’inglese nei licei capaci di trasmettere Shakespeare, sia pure come valore aggiunto…

«Ammesso, e non concesso, questo. Of course».