Pietrangelo Buttafuoco in Il Giornale, 28 luglio 2004, p. 27
Il filosofo siciliano snobbato dalla critica accademica torna a prendersela con il «mondo pessimo»: dialoghi, brevi trattati di teologia e schegge filosofiche che ricordano il miglior Jean-Paul Sartre e Tomasi di Lampedusa
«No Me gustas tú». L’abitudine di parlare male del cupo pensatore di Lentini (nonché paroliere di Franco Battiato) è ridicola e ingiustificata. Tranne quando ha avuto la pessima idea di interpretare e cantare il motivetto no global di Manu Chau
La ridicola consuetudine di stroncare a prescindere tutto ciò che fa Manlio Sgalambro non solo è ingiustificata quando canta – vogliamo concedere ai suoi critici solo Me gustas tú, l’orrido musicarello di Manu Chao che Sgalambro ha avuto la pessima idea di cantare, ma a parte ciò, Sgalambro è un delizioso
interprete di bellissime canzoni, bellissime ce ne sono tra quelle che lui ha scritto in coppia con Franco Battiato, bellissime – eccetto Manu Chao – quelle che sceglie ma a maggior ragione la pessima usanza del culturame italiano di dare addosso al filosofo coi Persol neri non ci trova disponibili perché già leggere il suo ultimo libro è un gran bel leggere.
De mundo pessimo, questo il titolo, è un volume della Piccola Biblioteca di Adelphi. Costa 13,00 euri e siccome ci ha catturati già nelle prime pagine, vi diciamo che averlo affrontato nella piena calura di un sabato squagliato di luglio tutto in un colpo è stato un felice stordimento, alla faccia della critica preventiva, priva di ogni fondamento proprio per il saggio iniziale, una sorta di introduzione su «lo scrittore di filosofia» che è quanto di più inedito si possa immaginare, quanto meno in lingua italiana perché forse l’unico saggio che possiamo accostare a queste curiose pagine di Sgalambro è il saggio su «le parole» di Jean-Paul Sartre, precisamente l’introduzione ma, fidatevi, il filosofo dei thè danzanti di Catania sopravanza quello della rive gauche parigina.
Non ci accodiamo dunque alla stucchevole consuetudine di stroncare per principio Sgalambro, anche quando reclama dal lettore «sottomissione o niente» perché ha ragione. Non c’è peggio che il plebeismo, a maggior ragione in ambito filosofico o, ancora più ardito l’orizzonte, in ambito teologico, ambito che non appartiene a Dio, va da sé, ma al teologo. Sgalambro ha pure il dono della prosa, abbonda d’ironia e di feroce levità. In un post scriptum riesce a mettere tutto. La teologia è la scienza del teologo, appunto: «Voi sapete che io ho impiegato anni a delimitare questa vanità, forse ho creduto che gli uomini cercassero la scienza anche in questo dominio. Ma essi qui cercano, ahimè, solo dozzinali risposte».
In questo libro abbiamo ritrovato lo Sgalambro autore del più affascinante romanzo epocale scritto sotto forma di saggio filosofico: stiamo parlando de La morte del sole, forse con I viceré di Federico de Roberto e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, il terzo potente monumento della grande letteratura siciliana. De mundo pessimo, dunque. L’editore ha voluto presentare questo titolo come un insieme di «schegge vulcaniche», capitoli che fanno il corredo di un prezioso colloquio, «parerga» che stanno a fondamento di una messa a fuoco urgente quando non c’è che «vegliare un morto», ovvero la teologia, oppure rinunciare a insegnare filosofia, evitare di trarre «legittimità» dalla geniale sequenza delle opere filosofiche perché queste infine «illuminano i suoi prodotti come il sole illumina indifferentemente l’essere umano et sa merde».
Forse l’unico capitolo che non eccelle, ma per la forma adottata, il dialogo (un vezzo tipicamente cacciariano), è quello sul comunismo. «Tuttavia parliamo» dice il filosofo al suo amico, ma sono lo stesso, malgrado la stanca forzatura del «dialogare», pagine di rara intelligenza: il comunismo è la comune contemporaneità con la fine del mondo, il concetto non è ovviamente un volgare anatema buono per la propaganda politica, bensì una certa idea di superbia: «lo sostituisco all’idea dei diseredati l’idea dei morenti». Il comunismo è una «lancia infiammata volta contro le disparità ontologiche e metafisiche». Bellissimo questo passo: «La differenza tra “geni” e “uomini comuni” mi è parsa più grave e decisiva di quella tra “ricchi” e “poveri”. La bellezza di cui sono dotati certi essere umani è più umiliante e più “ineguale” del possesso di immense ricchezze». Questi «parerga» – due sono da rileggere in continuazione, tanto sono belli: Contro la musica, Lettera sull’empietismo e su un recente progresso della teologia – questi parerga si diceva, meritano senz’altro di essere messi a riparo da molestie interpretative.
Sgalambro ha visto l’ombra di un cocchiere che con l’ombra di una spazzola, spazzolava l’ombra di una carrozza. Lo scrittore di filosofia, tale è Sgalambro, vuole che la «sua piccola opera possa essere guardata come una antica rovina da un viaggiatore rispettoso. Oppure che possa essere contemplata da uno di quei rari esteti per i quali la bellezza è bellezza di concetti. E sottratta così all’ordinario uso storico-filosofico».
Fosse un libro da leggere ad alta voce, sarebbe come uno spartito, ma la musica giunge sempre troppo tardi. «La musica ci intinge di mondo», la filosofia scritta di Sgalambro è un intervenire a malincuore, una noticina sul nostro diritto a «essere», un attestato di empietà dunque: la condizione di chi bussa a un Infinito, vi si pone di fronte a questo, magari continua a fare toc toc su questo Infinito sapendo che questo, alla fine, neppure lo vuole quell’empio.