«L’essenza distruttiva del mondo». Pensiero e rap di Manlio Sgalambro

Massimo Mori in Il Ponte, LIX, n. 2, febbraio 2003, pp. 124-128

Opus postumissimum (frammento di un poema) di Manlio Sgalambro non si trova in libreria perché stampato a Firenze nel 2002 dal direttore delle «Giubbe rosse» Fiorenzo Smalzi, in una piccola collana fuori commercio chiamata «Il caffè letterario». Così, solo recandosi nel più glorioso caffè letterario d’Italia sarà possibile ottenere l’ultimo libro del filosofo siciliano1, nato a Lentini nel 1924 ed esordito presso Adelphi nel 1982 col folgorante La morte del sole, massimamente apprezzato da Cacciari che ha salutato senza infingimenti un autentico e nuovo filosofo.
«Sono convinto che dobbiamo guardare alla realtà partendo da un unico punto di vista: quello della fine del mondo», afferma Sgalambro in un vecchia intervista a cura di M. Dzieduszycki su L’Europeo del 20 settembre 1982), impegnato a rovesciare le generali tendenze filosofiche orientate a teorizzare muovendo da Dio o dalle origini dell’uomo.
Non dall’Inizio ma dalla Fine bisogna filosofare, appreso che la fine del mondo non è un’apocalittica o mistica ipotesi ma una certezza: «anzi è l’ultima certezza che ci ha lasciato la scienza dell’Ottocento». Pertanto, la filosofia deve trasvalutare i propri usurati moduli e fare i conti con la catastrofe incombente: «dal momento che si sa che è inevi-tabile, sicura, la fine di tutto, che ci sarà l’annientamento del mondo o, se si vuole, la morte del sole».
Ma chi è questo apodittico nunzio dell’Apocalisse e inventore d’una filosofia che, per lui, non può essere se non «umile, svogliata, ironica»? Non un “professore”, certo un autodidatta di genio; come il geometra Quasimodo, il ragioniere Montale o l’ex studente all’Accademia di Brera Dario Fo: gli ultimi Nobel italiani per la letteratura. «Non mi sono mai laureato», dice quasi orgogliosamente Sgalambro nella citata intervista.
«Ho studiato un po’ legge, poi mi sono dedicato a una grande passione della mia vita, quella per la lettura. Da ragazzo, a Lentini, leggevo enormemente, nella grande biblioteca di mio zio avvocato. C’era ancora il fascismo, e quando cercavo di parlare con qualcuno, gli amici di famiglia, la morte, i bene, l’aldilà. Forse proprio per questo ho cominciato a interessarmi di filosofia. E così, leggendo e studiando, aiutando qualche studente a scrivere la sua tesi di laurea, ho vissuto fino a oggi in un totale anonimato. Di che cosa ho vissuto? Del reddito di un piccolo agrumeto, che mi ha lasciato mio padre».
A distanza di cinque anni dalla pubblicazione del primo libro, il filosofo, educatosi in gioventù sulla grande filosofia idealistica e su Spinoza, Kant, Hegel, Stirner, Schopenhauer, Nietzsche, Spengler, Simmel, si fa “teologo”, “ateo”, proponendo un’opera sulfurea, tra le più inquietanti del pensiero novecentesco, Trattato dell’empietà (Milano, Adelphi, 1987). Dove l’empietà non è tanto del filosofo quanto del mondo tutto: questo non è altro dal proprio Creatore; il quale, a sua volta, «non è diverso dal mondo». Dio esiste in quanto esiste il mondo. Un mondo che «è esattamente ciò che appare» e «in sé è ancora peggio».
Fatto da Dio a propria immagine, questo mondo, sentina d’ogni male, dimostra non solo l’esistenza ma, assieme, la “bassezza” della Creazione. Allora, se l’ateismo risulterebbe un nonsenso e un’ingenuità, altrettanto insensata e ingenua sarebbe una teologia subalterna alla religione, definibile una forma idolatrica della speranza, piuttosto che una teologia oppositiva e legata al puro, nobile, solitario ordine della mente. Un ordine che, come quello sgalambriano, aborrisce la metafisica, «stravizio di intelletti turpi» e vive alimentandosi del proprio stesso pensiero. Perché, più che di agire – pratica da energumeni e bestie da soma -, si tratta di pensare: e pensare non più il corpo adattato alla società dello spettacolo, non più la canagliesca metafisica politica, non più l’economicismo dei bricconi, ma la mente “critica” , una sorta d’imprevisto della natura fin troppo trascurato dal demiurgo.
Escono, seguendo una cadenza assai costante, Del metodo ipocondriaco (Catania, Il Girasole, 1989), ripubblicato dall’Adelphi col titolo Del pensare breve (1991), encomio dell’aforisma inteso come sofferenza o insofferenza del pensiero e «uso pessimistico della scrittura»; l’autobiografia mimetica Anatol (Milano, Adelphi, 1990) dove, tra l’altro, il filosofo dell’ontologia ermeneutica Gadamer viene bollato come un «imbecille» incapace di pensare il santo solipsismo del vero filosofo; Dialogo teologico (Milano, Adelphi, 1993), una fitta chiosa al Trattato dell’empietà per affermare il primato della “vita mentale” e un dialogo che il filosofo non può intrattenere se non con se stesso.
Seguono i libelli Dell’indifferenza in materia di società (Milano, Adelphi, 1994), Dialogo sul comunismo (De Martinis, 1995), La consolazione (Milano, Adelphi, 1995) e Trattato dell’età (Milano, Adelphi, 1999), un’aspra, anti-consolatoria teoresi della vecchiaia rispecchiante nella fine d’ogni volontà di vita l’«essenza distruttiva del mondo».
Un libro che, possibilmente, avvia il sodalizio di Sgalambro col musicista Franco Battiato è Contro la musica (De Martinis, 1994): ma contro quella del «rozzo ascoltatore», privo di gusto quanto di ethos. Ideali continuazioni d’un discorso che, per valutare se stesso, «rovescia i valori» costituiti, sono i libretti Il cavaliere dell’intelletto (1994) e, in collaborazione con Battiato, L’imboscata (1996). Il volume Teoria della canzone (Milano, Bompiani, 1997) e i testi dell’opera per balletto Campi magnetici (Sony-Classical, 2000) sono, infine, gli antefatti della fase poetica di Sgalambro che in Nietzsche. Frammenti di una biografia per versi e voce (Milano, Bompiani, 1998) rivela un’inedita vocazione di rapper confermata dall’incisione del disco Fun club (Sony Music, 2001) e, soprattutto, dall’Opus postumissimum, vera e propria ballata rap vicina alla  versificazione allucinatoria di Lautréamont, Artaud o Benn e passaggio da certo realismo filosofico al surrealismo poetico: dalle coalizioni della “ragione pratica” alla “s/ragione poetica”.
Lontano dal “pensiero poetante” similmente al Quasimodo sostenitore dell’inimicizia tra filosofi e poeti, l’autore non cerca di fare filosofia con la poesia, al contrario di taluni che, secondo la moda corrente, mettono in versi concetti e stilemi filosofici; ma afferma edonisticamente il proprio canto viscerale, vanificatore d’ogni afflato elegiaco e lirico.
Si è dunque di fronte a un filosofo-artista che, distaccandosi dalla specialistica tradizione filosofica italiana, non si perita di rigettare i rigidi dettami della filosofia accademica per sconfinare nella letteratura? Allora non è un caso che Stefano Lanuzza, in un’anticonformistica storia della letteratura italiana, Dante e gli altri (Milano, Stampa alternativa, 2001), nel capitolo dedicato ai novecenteschi neobarocchi affianchi Sgalambro a scrittori quali Manganelli, Testori, Ripellino, D’Arrigo, Consolo, Bufalino, Lucio Piccolo e Carmelo Bene. Al pari di quest’ultimo e nel modo insocievole o inadattabile che ha contraddistinto l’attore, poeta barocco e virtuosistico dicitore dei versi di Dante e Campana, ora Sgalambro, «scrittore di filosofia» e poeta travestito da chansonnier si mette provocatoriamente, con l’impassibilità d’un Buster Keaton, a calcare il palcoscenico marcando vieppiù la propria distanza dalla seriosità dei filosofi stritolati dai miti e riti universitari cui manifesta l’uguale disprezzo da essi riservatogli con l’ostracismo e la congiura del silenzio. «Lo scrittore di filosofia non è, come direbbe Fantozzi, una “merdaccia”. Non è un filosofo: è molto di più», dichiara Sgalambro in un’intervista a M. Serri su La Stampa (8 luglio 1995).
Temi dominanti del recente Opus postumissimum, un rap corrusco e straziato insorgente contro un tempo duro, implacabile e orribile, sono la senilità, la demenza, il dolore, il disfacimento del soggetto e dello stesso Essere. Argomento referenziale è l’agonia di Immanuel Kant descritta nell’ultimo periodo della sua vita funestato dalla malattia e, più specificamente, nell’ultima mezz’ora durante la quale il filosofo tedesco conosce una momentanea ripresa e ripercorre lucidamente i fatti della propria vita. Assistono alla sua fine l’allievo Vasianskij, da Sgalambro definito il «falso amico», con la brutale sorella e il repellente nipote.
«Signori sono vecchio e stanco / dovete considerarmi un bambino», pigola il già diafano Kant. Se «mettete queste ultime parole di Kant» vicino «a “Il cielo stellato sopra / di me e la legge morale in me” / e aggiungete pure per piacere: / “Dovere, nome sublime e grande”, / Vi avvedrete che il conto / non torna, che noi dobbiamo ancora / qualcosa al vecchio signore […] / Restituirgli la demenza dobbiamo, / fottutissimi figli di cani che siamo».
Perfetta cadenza di rap, nell’esordio del poema sgalambriano diviso in dieci frammenti, l’ultimo dei quali presta il titolo empaticamente parodico all’opera di Sgalambro. Titolo ripreso dall’ultimo scritto kantiano, Opus postumum, pubblicato da Vasianskij), ove spiccano la questione della Spaltung dell’individuo e, in certo senso, una revisione della Ragion pura: che finalmente può “consentire” al pensiero di riconsiderare le contraddizioni della soggettività e, al postutto, il diritto del soggetto a contraddirsi.
Con rapidi passaggi e cortocircuiti aforistici, con un tecnica “blobbistica” assemblante Stilicone, Eliogabalo, Commodo, Gibbon, con pochi tratti e vibrate immagini espressionistiche Sgalambro descrive un’epoca e un clima, lo spirito servile del tempo («Onoro imperatori neghittosi e feroci») e, all’opposto, il ribellismo individuale: «Svicolo per viuzze, zaffate di profumo e fetidi unguenti»; «Per tutta la cupezza d’Occidente, / per tutte le coppe di dolore vuotate / non rinunzio ai miei cento vestiti, / alle camicie di sete, ai polsini di platino, / smaltati»; «E l’eterno? Eterno è che l’uomo / si accovacci sui suoi odori ascendenti» («odori ascendenti», citazione dall’Ulisse joyciano).
A Sgalambro non è estranea la tecnica enciclopedico-poetica di Pound; o di Borges, da cui riprende l’emblema della «tigre»: «Sono spirito puro. Tigre mi risveglio». Fino alla debita riflessione, meta-filosofica non meno che incrinata dal sentimento d’una pietas di solito estraneo all’austerità sarcastica dell’autore: «Povero Kant, né anima / né corpo, non-essere vivente. La partita / con la vita è vinta o è perduta? / E vissuta». Non si scampa dalla vita, qui si campa e basta, scandisce il metronomo del rapper. «Tempo di rapper / Kant per cantanti. / Si spiaccica / si scolla / scoppiano budella / sprizzano sangue / e zozza / tutta di bave si ingozza. / Odore di marcio, di cancrena / sprigiona. / La sacra carogna di Kant».
Versi cantabili, incrementati nel settimo frammento dell’Opus, un Lied con dichiarazione amorosa per un paterno e fraterno Kant: «Io, che sono più vecchio di Dio, / ti dirò cose sull’universo e i mondi / nell’ora che la luce è alta e chiara / e desta raccapriccio ciò che vedi. / Credi, tutto fu un successo, lo / spettacolo forte gli interpreti divini, / gli applausi carini […] O mio Kant, / tortorella, padre mio! Il mio occhio / è vuoto ma ti vedo, alteri la notte e la fai luce. Il mio cuore è vuoto / ma ti credo. Ti innalzi sui mortali, / voli, ti precedono labari e bandiere. / Ferma il sole, mi fa male il sole». Ecco, il cuore del filosofo e poeta è vuoto, ma crede. E in fondo questa la sua poetica filosofia; ed è come se della vita, anzi del “campare”, rimanesse per lui soltanto l’odore, sia questo un profumo o un fetore o un canto.

  1. La cifra dell’“insularità” come metafora del solipsismo è una costante dell’opera di Manlio Sgalambro: «un centro di gravità permanente» – suggerirebbe il sodale Franco Battiato – presso cui il filosofo ritorna legandosi alla grande tradizione letteraria siciliana e internazionale rappresentata dai Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia o D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca (1975) che Sgalambro considera «un grande libro». Aggiungendo: «Ovviamente, questo libro non poteva ricevere, nell’attuale sistema della cultura, tutto ciò che gli sarebbe stato dovuto» (cfr. Lo sguardo filosofico, un’intervista molto utile per ripercorrere le tracce del pensiero sgalambriano, a cura di S. Lanuzza, Molloy n. 2, gennaio-marzo 1989, p. 5).