Manlio Sgalambro. Contro il terrorismo insegniamo agli arabi come si fa la guerra

Gianni Bonina in La Sicilia, 16 ottobre 2001, p. 6

Davanti all’apocalisse

“La differenza la fa l’anima magica”

Manlio Sgalambro è nato a Lentini nel 1924. È considerato uno dei maggiori pensatori italiani viventi. I suoi libri sono stati pubblicati da Adelphi, dove l’anno prossimo uscirà De mundo pessimo, una summa del pensiero del filosofo siciliano, che con studi ormai noti come Trattato dell’empietà e Del pensare breve, incentrati soprattutto sull’idea dell’annullamento di Dio, si è imposto all’attenzione della comunità internazionale come il più lucido interprete della filosofia negativa di tipo heideggeriano. Nelgi ultimi anni si è interessato alla musica cui ha dedicato un pamphlet, Teoria della canzone, uscito da Bompiani, lo stesso editore che ha pubblicato Nietzsche (Frammenti di una biografia per versi e voce). È atteso a breve il suo primo album di canzoni degli anni ’40, in gran parte americane, cantate dallo stesso Sgalambro: tredici brani sotto il titolo Fun club. L’ultimo suo libro importante è stato Trattato dell’età.

Manlio Sgalambro ha una casa piena di libri perlopiù di filosofia ma sullo scrittoio tiene le Poesie di Eliot, segno che testa e cuore non possono stare granché disgiunti. Ma questo non è il tempo del sentimento quanto della ragione. Meglio: della riflessione e delle domande. Per esempio: se cristiani e musulmani avessimo avuto un unico Dio, tutto questo sarebbe successo?
«Credo – dice il filosofo catanese – che piuttosto che risalire ai concetti assoluti (che richiedono un minimo di strutturazione teologica) occorrerebbe parlare di quella che è la morfologia delle civiltà e quindi dell’anima magica della civiltà araba.»

Siamo all’Inconoscibile spenceriano e alla correlazione religione-scienza.

«Sì. La nostra civiltà, quella occidentale, è tale per la scoperta che ha fatto della tecnica. Che la tecnologia fosse un elemento presente nella Grecia, di cui vantiamo i natali teoretici, ma che non sia stata applicata se non in rare occasioni, è una tesi ormai documentata. Ma qui ci troviamo di fronte a una civiltà tecnologica la quale cozza con un’anima magica dove la religiosità è una presenza diffusa. Se non ci fosse una fede (che è un concetto forse occidentale, nato all’interno della religiosità occidentale e frutto di elaborazioni molteplici), ma proprio una “animità”, qualcosa che Spencer appunto con rara intuizione chiama “l’anima magica” contrapposta all'”anima faustiana”, ovvero occidentale, non sarebbe più un’anima che possa essere espressa dal culto, quanto appunto dalla civiltà attraverso la tecnica. Ed è proprio contro la tecnologia che si fa valere non la guerra, che è un concetto legato alle civiltà tecnologiche, ma qualcosa di inconcepibile. Ai pacifisti che gridavano che peggio della guerra non c’è niente è stato dimostrato con sottile crudeltà che di peggio c’è qualcosa che è il terrore. Questo scompagina le nostre diatribe su guerra e pace perché ci mostra un terzo incomodo. Non più il terrore come atto individuale, ma come atto collettivo o quantomeno come atto che pare mobiliti masse all’interno di cui si riconoscono più popoli. Come se in sostanza cadessero anche le barriere di stato e di razza per riconoscersi in qualcosa che certamente è, da un punto di vista ufficiale, l’Islam e la religione musulmana, ma che dal punto di vista da cui noi indagatori impenitenti dobbiamo fare il nostro dovere vediamo come più profondo o comunque più spontaneo. E mi va bene usare questa vecchia categoria, con cui comprendo bene il fenomeno, di anima magica».

Una categoria che se non giustifica, certamente spiega l’atteggiamento islamico. Ma lo spiega fino a comprendere le azioni dei kamikaze?

«Si dice che quanti appartengano all’anima magica si suicidino. È un concetto del tutto sbagliato, perché in realtà colui il quale si uccide facendosi saltare in aria non si suicida affatto. Il suicidio è un atto individuale, mentre qui ci troviamo di fronte a persone che si fanno strumento, si fanno bomba, sicché non ricorre l’ipotesi di suicidio che noi conosciamo come werterismo, l’anima tormentata che sottende motivazioni individuali. Qui abbiamo gente che non formula queste escogitazioni né si atteggia ad anima werteriana o si chiede “Che faccio, mi ammazzo o non mi ammazzo?”. Si fa arma e si usa come arma, propriamente come bomba».

Lei ha impegnato il suo pensiero nella ricerca di un Dio che non ha religione nelle forme di un deismo che ammette la religione solo attraverso la ragione. E ha scritto che «la teologia serve ogni religione e fa da padrona».

«Credo di avere studiato da un punto di vista concettuale il problema, come se postulasse questa domanda: cosa penso quando penso Dio? Il concetto che ne ho non è di infinito ma di smisurato. È un concetto che diventa personificazione solo perché potenza: cioè lo smisurato diventa qualcuno in quanto è potenza. Quando qualcosa diventa smisurata entra nella nostra immaginazione e si personifica, diventa qualcuno. Io supponevo addirittura di aver indicato alla teologia la strada per svincolarsi e costituirsi su basi autonome. Il punto di partenza non sono quindi le religioni, che sono mediocri applicazioni di vari concetti mentre è evidente che la questione non può involgere la religione, perché la religione è l’uso che si fa di Dio. La usiamo come mezzo. Nel Medioevo è stato il più grande mezzo di consumo: e probabilmente per l’anima magica è un mezzo di consumo. Un teologo svizzero dell’Ottocento dice che “la teologia è il satana della religione”, cioè elimina la religione come un disturbo al pensare».

Lei ha scritto cosa analoga: «Filosoficamente la teologia è urtante».

«Sì, perché si approda a concetti poco usabili di Dio. Siamo sulla linea di prosecuzione spinoziana che dà luogo a un concetto di Dio che non si può utilizzare».

Se assumiamo Cartesio come padre generatore del pensiero moderno occidentale troviamo che la sua idea innata di Dio, di un Dio personale, si scontra con quella islamica che integra uno stato di sottomissione assoluta dell’uomo a Dio. Alla base le concezioni sono quindi alternative.

«Dobbiamo disabituarci a pensare i nostri filosofi non come macchine che si possano migliorare e ammodernare. Il grande pensiero europeo è tale perché percorre come un spada tutto il nostro Occidente. Non si può mettere in una storia della filosofia e collocare i pensatori uno dietro l’alto stabilendo la possibilità di renderli attuali. Le verità quando si oggettivizzano cozzano una contro l’altra ed è questo il bello della spiga del pensiero, che ad un tratto le verità si dividono».

Ma lei è un pensatore occidentale e si rifà a pensatori solo occidentali.

«Non c’è dubbio. Eppure ci si sono pensatori non occidentali che fanno parte del nostro corpus. Pensi all’africano Agostino, la cui visione costituisce uno dei pilastri della chiesa cattolica».

Ha notato che la guerra in corso ha avvicinato moltissimo gli occidentali agli arabi, quantomeno accrescendone la curiosità di conoscerli meglio?

«Ma ce ne interessiamo come di un evento sciagurato. Per noi la civiltà araba si identifica con la scoperta del terrore, che diversamente dalla guerra non è in nessun luogo. La guerra ha un luogo, è circoscritta, ha un punto oltre il quale c’è la pace. Invece il terrore è ovunque: può portarmelo lei venendo a casa mia, una vacanza in aereo. Insisto perciò a parlare di anima magica, idea che designa una civiltà che non è entrata nella fase tecnologica. Questo è il punto: se gli arabi fossero entrati nella fase tecnologica con una civiltà piena avrebbero scelto la guerra anche loro e non il terrore. Fate sì che queste civiltà si tecnologizzino, nei limiti in cui la tecnologia si possa imporre (il Giappone se la scoprì da sola, per esempio), e gli arabi non ricorreranno più al terrore ma alla guerra».

Ma per fare questo dovrebbero emendare il Corano che impone regole medievali sì ma inderogabili, che non tengono conto del progresso.

«L’anima magica restituisce il corpus degli scritti su cui basa l’aderenza a una propria visione del mondo. Qualcuno non legge le cose che in maniera letteralissima e a volte metaforica, mettendo in moto categorie interpretative fuorvianti. Se pure leggessimo il Vecchio Testamento come gli arabi leggono il Corano, dovremmo fare i conti con un Dio rigoroso e persecutore».

Il problema è che il Corano è un breviario di condotta morale ma anche un manuale di normazione politica.

«Questo è il punto. Ma la spiegazione c’è ed è storica: mentre a partire da Paolo si comincia a distinguere il concetto di Stato, gli arabi, non avendo avuto un Paolo, non hanno diviso la politica dalla religione».

Eppure islamismo e cristinesimo hanno un’anagrafe comune: l’Arcangelo Gabriele, il Giudizio universale, la punizione e la beatificazione eterne. Persino Maometto (anche lui per lunghi anni nel deserto come Cristo) si rifà a ebrei e cristiani. Com’è che oggi riconosciamo queste due religioni così diverse? Nella sostanza, la cultura occidentale ha la stessa scaturigine di quella orientale.

«Questa idea di prevalenza di una cultura sull’altra non porta a distinzioni ma a gerarchie. Mentre se una distinzione vale è quella tra una civiltà di tipo tecnologico, che ha risolto il problema dell’anima, e una civiltà rimasta al momento magica, gravida di un calore interno che si sviluppa e irrompe in maniera informe, pur se calata nel testo. È il mullah a farla calare nel testo interpretandola secondo canoni consolidati: il sottomesso prende da lui la voce, l’atteggiamento, la ieraticità, il piede eccitatorio».

Nessun punto di incontro quindi lei ammette tra le due fedi?

«Ci troviamo di fronte a un mondo che tende a una unificazione globale, perché la vicenda che viviamo ci prende globalmente. Non dobbiamo dimenticare che per ciò che ci accadrà, nel bene e nel male, noi saremo globali per la nostra pena. La storia non ci risparmierà, diciamo meglio: il globale non ci risparmierà la parte negativa dell’uomo, globalizzeremo anche questa».

Si spieghi meglio: il terrorismo è un fenomeno di globalizzazione?

«Ragioniamo. Le vicende che ci accadono si strutturano all’interno della costruzione di una terza cosa tra guerra e pace. E questa terza cosa è il terrore. Il terrorismo ci mostra come l’alternativa alla guerra non sia la pace, ma appunto il terrore. Liberatevi dalla guerra e avrete il terrore. Questa è la lezione che stiamo ricevendo: che è preferibile la guerra al terrore. La guerra non si sostiene con impatto ma con gli autocontrolli di cui lo spirito occidentale si è dotato inventando la guerra moderna come razionalizzazione del belluino e dell’istintivo, elementi che ci siamo lasciati ben dietro. Oggi la guerra si fa con la ragione e la vediamo come un atto di razionalizzazione».

Di convenzioni dunque.

«Esatto. Si parla infatti di guerra convenzionale, mentre il terrore si esercita innanzitutto scegliendo tutti come nemici di campo e non solo quella compagine che si dice atta a fare la guerra (Esercito, Marina, Aviazione) e che l’altro accetta come tale. Il terrore ci fa tutti partecipi. Questa cui assistiamo è una beffa per il pacifismo, che ha costruito una falsa immagine di sé. Ha detto “Eliminiamo la guerra”: un paradosso. Facciamo invece che anche i popoli minori, senza mezzi tecnologici, abbiano la possibilità di fare una guerra, perché altrimenti – e questo dovevamo ben prevederlo – fanno il terrore».

Allora gli uomini di Ginevra erano migliori di noi: avevano quantomeno concepito l’idea delle regole del gioco.

«Guardi, io credo nella Realpolitik e non nell’uomo che riesce a risolvere la guerra senza danni maggiori. Ovviamente attraversiamo un periodo in cui amiamo credere questo, ma la storia dell’uomo si sviluppa su archi millenari: chi avesse la possibilità, chissà quante guerre ancora vedrebbe e di che tipo, considerate non come sciagure ma come espressioni realistiche dietro uno sguardo machiavellico che vede l’uomo com’è e non come dovrebbe essere: l’uomo cioè effettuale».

Anche quella che vediamo non è una forma di riarmo quando il riarmo è stato messo in soffitta: l’invalenza di uno spirito del maggior danno per risolvere le controversie?

«Certo. E credo che l’Occidente contribuisca a determinare questa logica. Gli americani ricorreranno ad armi eccezionali e non più convenzionali, perché non possono giocare sul lungo tempo, altrimenti tutti i governi arabi moderati crolleranno uno dopo l’altro. La guerra dunque si risolverà in maniera eccezionale e finirà in breve tempo».

Ma da che parte sta la ragione?

«La sa la storiella del giudice che riceve due contendenti e una terza persona? Dà ragione al primo, dà ragione al secondo e al terzo, che gli dice che tutt’e due hanno torto, fa: “Hai ragione pure tu”. C’è una buona ragione per ogni buona causa. Dal crollo dell’impero ottomano i popoli arabi cercano qualcosa: prima di tutto un nemico, perché sanno che individuando un nemico possono lottare. E questo nemico lo hanno trovato nell’America che del resto si è fatta trovare facilmente. Prima il nemico era l’Inghilterra, grazie alla quale gli arabi costituirono delle nazionalità. Ora vogliono ricostruire l’identità panaraba: è la loro anima magica che li spinge, il loro stato pre-tecnologico».

L’Occidente ha fatto di tutto per comprenderli? Nel Discorso sul metodo Cartesio dice che «è bene sapere
qualcosa dei costumi dei popoli per non stimare ridicolo e irragionevole ciò che è contrario alle nostre abitudini».

«L’Occidente ha una sua colpa, quella di un ‘ignoranza diffusa delle civiltà che pure ci lambiscono».

Del resto l’espressione Terzo Mondo l’abbiamo inventata noi, mica se la sono data gli arabi.

«Non mi sento di intendere il mondo arabo come Terzo. Piuttosto lo chiamerei “altro”. Ma non ci sono più, come dicevamo prima, mondi separati. Prenda questa guerra. Dovrebbe essere tra arabi e americani, mentre ci entriamo anche noi europei, visto che siamo in uno stato di globalità. Che viene così inaugurata con una guerra. Si è detto che è la prima guerra del terzo millennio e in vece è la prima guerra dell’età della globalizzazione, che se porta ad azioni globali ci induce a parlare semmai non più di guerra mondiale ma di guerra globale».

Dove si combatte su uno scacchiere disequilibrato: da un lato il terrorismo e da un altro il blocco di guerra convenzionale.

«Tenderà a equilibrarsi, stia certo. Pensi a questo: i talebani hanno dichiarato che i loro radar sono tanto primitivi che le azioni aeree non li danneggiano come avverrebbe contro radar moderni».

Teme di più l’arma del terrore o quella mastodontica della Nato?

«Il terrore, perché per sua natura non è localizzabile. Esco e posso incrociare qualcuno che porta un sacchetto di veleni fischiettando».

Perché nessuno ha capito che il terrorismo era giunto a questo grado di evoluzione?

«Consideri gli ultimi anni che precedono la rivoluzione francese: nei teatri di Parigi si danno le commedie di Beaumarchais intese a sparlare della nobiltà e gli aristocratici sono quelli che battono più fragorosamente le mani».

Ha letto quanto ha scritto la Fallaci sul Corriere della Sera?

«No. Che ha scritto?»

Alle spicce, che noi occidentali siamo migliori degli arabi, una specie di razza eletta. In effetti profughi ed emigranti ci vedono come l’Eldorado.

«Credo che sia l’immagine della felicità a trasformare gli arabi in infelici. Fin quando non si sa che a nord c’è la felicità, che c’è la libertà, il problema non nasce. Investiamo l’Oriente di seduzioni e lo tentiamo. È un problema di pubblicità: la réclame che l’Occidente fa in Oriente ha avuto fortuna e ha convinto gli arabi della bontà del prodotto. La felicità occidentale va dunque comprata. È contro questa perversione autodistruttiva che gli arabi si battono».