Paolo Miccoli in L’Osservatore Romano, 29-30 novembre 1999, p. 3
A proposito del Trattato dell’età di Manlio Sgalambro
Manlio Sgalambro fin dall’esordio con La morte del sole (1982) ha continuato a farsi sentire, a intervalli ponderati, sempre con voce tagliente e spregiudicatezza antidogmatica, non poco iconoclasta del mondo accademico. Gli è congeniale il genere letterario del Trattato, che esige rigore nell’esposizione logica e sistematica di un tema preciso, a differenza del Saggio, che è frutto della inventività dell’autore e spazia in un universo fantastico più duttile. E delle trattazioni Sgalambro sceglie quelle impegnative che allertano la vigilanza di teologi e filosofi: l’ateismo, il rigore nell’arte di pensare, l’indifferenza sociale, la consolazione in senso ultra-consolatorio, la vita umana al suo tramonto nel recente opuscolo Trattato dell’età, edito da Adelphi. Su quest’ultimo scritto si attarda la nostra riflessione.
In altri interventi da queste pagine abbiamo avuto modo di confrontarci dialetticamente con lui, come si conviene al dialogo filosofico, presi dalla scansione della «cosa stessa» che induce a meditare da opposte sponde. Si ha a che fare, infatti, con un autore dalle posizioni nette, le cui coordinate culturali possono essere incorniciate nel cinismo stoico, nella metafisica schopenhaueriana, nell’ateismo e nel materialismo. Un autore, insomma, che non va a caccia di farfalle sotto l’arco di Tito.
Non vogliamo tacere anche in questo nuovo confronto critico la serietà metodica, l’informazione accurata, la prosa secca e nervosa di un dettato che lo antepongono a molti pseudo-pensatori e a retori camaleontici dell’industria libraria. Abbiamo in lui un interlocutore che ci costringe a rileggere i classici del pensiero filosofico e teologico, stornando l’attenzione dalle odierne voci di sirene. Dunque, dialogo serrato tra miscredenza e fede anche sull’età dell’uomo, a partire dall’opuscolo che abbiamo letto con l’avvertimento spinoziano di non ridere né piangere, ma solo capire. La pagina sgalambriana non cede all’acredine passionale, né all’ironia del materialismo rozzo.
Nel leguere il Trattato dell’età la memoria allo scritto analogo di Norberto Bobbio che, sulla novantina, ci ha regalato anche lui un opuscolo sulla vecchiaia: De Senectute, Einaudi, 1996, nello stile del «sermo consulatorius», ma che, a differenza di Seneca e di Cicerone, porta lo stigma di un pessimismo irredimibile, placato alquanto dalla memoria del passato.
(E non dimentichiamo un altro scritto di Bobbio, Elogio della mitezza, Pratiche, 1994, dove la posizione agnostica nei confronti del problema del male si esprimeva nella rivendicazione razionale del dubbio, della interrogazione senza risposta e della rassegnazione all’inarrestabile trascorrere del tempo, per lenire i mali della vita e renderli quantomeno più sopportabili).
Sgalambro, non poco influenzato da Schopenhauer quanto a contenuto tematico e da Spinoza quanto a stile letterario, si pone sin dalle prime battute nel filosofare metafisico, intendendo l’età come la trascrizione visiva del tempo nel corpo umano tra nascita e morte L’eta è il climax, ossia «quel momento in cui il tempo si innalza talmente al di sopra di se stesso che pur non essendo eternità, è come se lo fosse» (p. 51). Dunque, bando a metodologie fenomenologiche e psicologiche a buon mercato. L’autore dichiara seccamente: «inseguo contemporaneamente parole e idee. Ma mi vieto ogni narrazione» (p. 58). Che cosa ne viene fuori? Una serie di assiomi paradossali: 1) fronteggiare i danni e il dolore della «verità», 2) sostituire al divenire eracliteo, carezza dolciastra per ogni cosa, la disgregazione dell’organismo vivente, 3) familiarizzare col nostro «corpo di morte»; il tutto alla luce del Tempo che ci segna nei mondo transeunte. Si dispiega così, nella trama di
questi cardini provocatori, l’elogio della vecchiaia: età metafisica per eccellenza, giacché sappiamo, alla scuola di Schopenhauer (cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione) che gli anni dell’età evolutiva, dall’infanzia alla maturità, sono convenzioni sociopsicologiche che fanno risaltare il meccanismo degli istinti, dei bisogni e degli interessi che legano l’uomo al mondo. Le scienze, che riflettono la baldanza giovanile, sono nient’altro che «rappresentazione» superficiale e industriosa della realtà (spazio, tempo, causa). Ciò che immette nel cuore della vita è il mysterium tremendum della morte. Incarnazione visibile dell’erosione irreversibile del tempo è il vecchio, la cui profonda identità è contrassegnata dal «tempo vero», che ridimensiona gli entusiasmi giovanili e le spinte istintive e orienta all’intuizione dell’assoluto. A questo punto Sgalambro prende in contropiede il filosofo tedesco del pessimismo e oppone al metafisico spegnimento della volontà (Noluntas) la presenza del vecchio quale essere al di fuori di ogni legalità convenzionale; per questo motivo egli è ravvisato come inquietante, terribile, cosmico, come «pura conoscenza» opposta alla «conoscenza sanguigna». Le ultime riflessioni del Trattato sono dedicate al peculiare «pensare a due» di una coppia di vecchi, nell’orizzonte della verità assoluta che riluce grazie allo hiatus che li separa dalla passione giovanile.
Di fronte a questa proposta cinica insorge l’interrogativo del lettore: ci dobbiamo rassegnare stoicamente al destino definitivo della morte, o c’è un altro modo di intendere la vita? Tra pessimismo assoluto e ottimismo vanesio Leopardi postulava la necessità delle «illusioni» per sopravvivere. A lui bastavano le illusioni artistiche (forse anche quelle filosofiche), ma nei credenti rispettava le consolazioni religiose. Valutate serenamente, le «illusioni» leopardiane appaiono espedienti effimeri di aneliti insopprimibili. Il passo oltre l’insulto della morte è nel Vangelo. Il cristianesimo ha rivelato, grazie al mistero pasquale del Redentore, il destino soprannaturale dell’uomo. Cristo, «luce nella nostra tenebra» (s. Agostino), incoraggia a sperare e ad amare oltre la morte. Le illuminazioni della fede cristiana inducono all’accoglimento della umana vicenda biologica, supportata dal cifrario della vita redenta che «si trasforma ma non ci è tolta». L’abisso (olám) che Dio ha messo nel cuore dell’uomo, secondo il Libro della Sapienza, solo Lui lo riempie. Questo spiega, dal punto di vista della fede, la maestosa «religiosità» del vecchio in quanto esemplarità di saggezza che impone riverenza.
L’attuale Pontefice, che esprime oggi l’identità pedagogica e mistagogica del grande Vecchio, ha sentito l’urgenza pastorale di indirizzare una lettera apostolica agli Anziani (1 ottobre 1999), sostenendoli e illuminandoli con gli ammaestramenti dell’antica saggezza pagana e con le illuminazioni della Bibbia, evidenziando alla coscienza mondiale i valori straordinari dell’anzianità: il venir meno delle turbolenze passionali accresce negli uomini e donne attempati sapienza, maturità di consiglio, essenzialità di valori, rendendoli vivente memoria storica nella catena delle generazioni che si susseguono.
Nella Lettera pontificia c’è un passaggio particolarmente significativo, che fa quasi da contrappunto all’argomentare petroso e arido dell’autore col quale ci siamo intrattenuti criticamente, rovesciandone in positivo le amare constatazioni della prospettiva materialistica. «Lo spirito umano – scrive Giovanni Paolo Il – pur partecipando all’invecchiamento del corpo, rimane in un certo senso sempre giovane, se vive rivolto verso l’eterno, e di questa perenne giovinezza fa più viva esperienza, quando all’interiore testimonianza della buona coscienza, si unisce affetto premuroso e grato delle persone care. L’uomo, allora, come scrive s. Gregorio di Nazianzo, “non invecchierà nello spirito: accetterà la dissoluzione come il momento stabilito per la necessaria libertà. Dolcemente trasmigrerà nell’aldilà dove nessuno è immaturo o vecchio, ma tutti sono perfetti nell’età spirituale” (Discorso dopo il ritorno dalla campagna, 11)».
Concludiamo con una riflessione di Kierkegaard sul «vecchio» Abramo cine ringiovanisce spiritualmente nell’ora della prova, quando spera contro ogni speranza: «Abramo credette, perciò egli è giovane; poiché colui che spera sempre la cosa migliore, costui invecchia perché deluso dalla vita; chi si tiene sempre pronto al peggio, costui invecchia precocemente; ma colui che crede, conserva un’eterna giovinezza» (Timore e tremore).