Manlio Sgalambro. Pensiero, corpo e vermi, sguardo crudo sulla vita

Quirino Principe in Il Sole 24 Ore, 7 novembre 1999, p. 29

Un Trattato dell’età labirintico, aspro e impietoso

Chi legga Manlio Sgalambro, per la prima volta, può credere, dopo qualche pagina, che questo filosofo unico nella sua fisionomia faccia il possibile per ammantarsi e corazzarsi di pagine irte, anche graficamente, di un arredo più offensivo che difensivo. Anche se guardiamo a distanza quelle pagine, le vediamo armate: l’autore non disdegna la parentesi, l’inciso nella parentesi e la parcatesi nell’inciso, il corsivo, le virgolette di varia foggia e di rango subordinato, le citazioni, nel corpo del testo. di versi separati da barre. Tutto tende, con coerenza ferrea (l’aggettivo non è casuale), a porre al bando la superficie liscia. a rendere impossibile il vacuum e il continuum. Tutto è accuratamente calcolato, eppure, quando oltrepassiamo lo schermo visivo e c immergiamo nella lettura, ci accorgiamo che non si tratta di una scelta, ma di una necessità. Tutto, in Sgalambro, ha una naturale disposizione ad aggredire. L’asperità del segno, cui corrisponde l’asprezza dell’itinerario filosofico, può sembrare crudeltà, talora al limite del sadismo, ma la parola “crudeltà” non rende giustizia a questo autore, e la vorremmo sostituire con “ferocia”. Che poi la ferocia sia spesso rivolta dall’autore contro se tesso, un morfismo tipico di una pianta-uomo coltivata, questa volta sì, e fin dai tempi lontani, nel terreno di una cultura tanto precisa e definita quanto devastata e fortemente snaturata da molteplici innesti. È il segno di una sicilianità completamente scorticata, cui sia stato strappato tutto ciò che è “caratteristico”. È la rara durezza dell’heautontimorumenos.
Avevamo già attraversato, ricavandone sulla pelle graffi di spine, altri libri di Sgalambro: in particolare, Anatol (1990), Del pensare breve (1991), La consolazione (1995). Mai però come in questo Trattato dell’età  l’autore ci sottopone a scosse violente lungo un labirinto. Lo strano è che il labirinto non ha misteri, poiché il percorso è in chiaro e l’uscita è visibile da ogni punto in cui si voglia sostare: il labirinto ha pericoli, poiché il percorso è obbligato, e dove meno agevole è il passaggio, là dobbiamo passare. È uno di quei libri che fanno morti e feriti. La diversità – che è anche voluta con forza, ma senza compiacimento, dato il tema – si traduce in una difficoltà di lettura del tutto apparente, e si dissolve dopo mezza pagina. Aggredire è un modo di comunicare. Questo libro è diverso poiché è scritto anche con il corpo. L’autore non si nasconde, e lo dichiara. Ciò è tanto più importante in relazione all’oggetto del libro. Non è un De senectute, poiché se lo fosse tenderebbe a oggettivare e mirerebbe alla consolatio. Consolazione e mediazione culturale sono poste al bando sin dall’esordio. «I pensatori contemporanei non hanno più nervi adatti alla conoscenza. Non sentono la distruzione che macina dall’interno i loro pensieri e dall’esterno il loro corpo. Non ne traggono le conclusioni, eppure è l’unica fonte cui il disperato conoscitore si aggrappa nei momenti decisivi». La disgregazione del corpo comincia all’inizio. «Che il corpo sia in qualche modo la conoscenza stessa – a parte quell’ampia parentesi che un vero pensatore riesce ad aprirsi – è ultra-provato dal guardarsi anzitutto in esso. Purché dal corpo – per parlare immaginosamente – non si disgiungano i vermi che lo divorano. Tutti i suoi movimenti, il suo stesso “essere”, il suo indaffarato agitarsi sono affetti da un disfarsi perpetuo. Questa verità l’avremmo tutti a portata d’intuito se un attimo di esitazione non ce la facesse cadere di mano. Tutto ciò che si chiede alla verità, purché non si esiti, lo si avrà. Ciò significa che dobbiamo accollarcene i danni e il dolore, nonché lo spavento di vederne l’azione su di noi. Come se, posti su un corpo scagliato con forza su una montagna, precipitassimo senza scampo verso di essa, e con occhi atterriti vedessimo avvicinarsi inesorabilmente il momento in cui ci sfracelleremo».
La citazione è lunga doverosamente, anzi inevitabilmente. Se il labirinto è un percorso obbligato, come avviene in questo libro, la linea spezzata e le svolte ad angolo retto (talvolta ad angolo acuto) sono esse stesse la ricarica di un impulso a correre. È quasi impossibile arrestarsi leggendo il Trattato dell’età. Non si riesce a trovare un punto d’interruzione, tanto che la divisioni in capitoli, apparentemente netta e corrispondente all’irruzione di nuovi temi (o allo spostarsi rapido su altri punti d’osservazione), può essere giudicata fittizia: un altro gioco feroce. La vita di un essere umano è labirintica come questo libro, e la specificità della vecchiaia è il vedere il labirinto tutto insieme, e dall’angolo più adatto all’osservazione. Il giovane può diventare vecchio, ma il vecchio resta vecchio: quasi un geroglifico che significa “eternità”, ma è, appunto, solo un geroglifico. Se il simbolo del vecchio è simbolo metafisica, «su di esso grava la physis, contro il suo stesso “al di là”».

Manlio Sgalambro, Trattato dell’età, Adelphi, Milano 1999, pagg. 130, L. 14.000.