Gino Castaldo in La Repubblica, 24 settembre 1998, p. 41
Roma – È il momento degli italiani, già protagonisti quest’anno di una assoluta leadership nelle classifiche discografiche. Son tanti, cantautori in testa, e fra gli altri, ad aprire la stagione in grande stile è il nuovo album di Franco Battiato. Ma sentite questa: “Nelle mie orbite si scontrano tribù di sub-urbani, di aminoacidi, latenti shock addizionali, sveglia, sveglia kundalini”. Non è un nuovo gruppetto di guerriglia cyber-rock, è il nuovo pezzo di Shock in my town che, sorprendentemente, da circa un mese riscuote successo nelle radio. E a stupirsene è lo stesso Battiato che al telefono, dal suo fiorito fortino alle pendici dell’Etna, ci racconta: “Avevo la sensazione che questo pezzo in particolare stesse per cadere in un momento sbagliato del mercato italiano. Mi aspettavo reazioni più difficili, e nelle radio la classica sfumata al secondo minuto. E invece mi sono ricreduto, i mezzi di comunicazione l’hanno preso e lo stanno risputando con una solarità che non avevo immaginato”. Ed è solo l’avvisaglia, l’avamposto dell’album che uscirà oggi in tutti i negozi col titolo di Gommalacca e un sottinteso sonoro: techno, o meglio l’apocalisse tecnologica, cupa e dissonante, che sta accompagnando l’uomo alla fine del secolo. Battiato non ha paura di niente, lui che vive in un parziale eremitaggio e scrive sornione sui conflitti della vita nelle città, lui che mantiene integra la voglia di stupire e anche di essere detestato, se occorre. Il suo maggiore divertimento è forzare i limiti della canzone come in un grande gioco intellettuale che prevede indifferentemente collage dadaisti o sofferte elegie. Mantiene la collaborazione con Manlio Sgalambro, eretico, poeta sconveniente e assurdo, e il gioco prende una piega maestosa, molto poco convenzionale, e l’amico filosofo lo spinge a declamare i suoi versi in Shackleton, incredibile mescolanza di antichi suoni classici, sussurri e narrazioni letterarie, e addirittura lo ha travestito e fatto recitare nel video di Shock in my town. In questo album Battiato veleggia con ironia in un universo frastornato e caotico, costruisce una filastrocca ironica per irridere al potere (Il ballo del potere), si commuove sinceramente nel ricordo di Maria Callas (Casta diva) e alterna rock efferato a pezzi teneri, più intimi. La spiegazione che ne offre l’autore è disarmante: “è una necessità che si è innescata fin dai tempi in cui lavoravo nelle balere. La regola era: due shake e un lento. In fondo sono rimasto dalla parte di chi ascolta”. Sì, non c’è dubbio, ma senza perdere il gusto di mettere alla prova il pubblico, quasi una sfida a tendere la corda fin dove si può, tanto per vedere se ci sarà ancora un pubblico a seguire il gioco. Il pubblico c’è, non c’è dubbio, una grande fetta di appassionati disposti ad accettare le strane e divergenti direzioni prese dalla sua musica. Compresi i versi, unici, nel panorama italiano, coraggiosamente indifferenti al fatto che in fondo, come si usa dire spesso, si tratta solo di canzonette. Ecco alcuni esempi: “Mi farò strada tra cento miliardi di stelle, la mia anima le attraverserà e su una di esse vivrà eterna” (Vite parallele), oppure “i colli dei cigni splendono alla luce e mille barbagli trafiggono le palpebre, il fuoco che bruciò Roma è solo sprazzo” (È stato molto bello). Chi altri oserebbe trattare le canzoni come luoghi di provocazioni così alte, così lontane dal comune sentire, o meglio dal modo in cui normalmente parla la gente? A qualcuno Battiato potrà sembrare sempre simile a se stesso, ma a dare quest’impressione è il canto, inconfondibile, lieve, irridente, mentre sullo sfondo gli scenari cambiano, anzi si evolvono come cellule di un caleidoscopio governato da una impietosa e potente antenna-sonda piazzata sulle macerie del pianeta. Macerie morali, si intende, che impongono una visione decisamente apocalittica. Sarà pure un gioco, ma le melodie e i suoni elettronici non nascondono una certa durezza. è quello che apprezza la gente? “Forse” risponde Battiato, “anche se questi processi si possono analizzare solo in seguito. Il disco è pervaso da una visione apocalittica, anche se spero con qualche spiraglio da qualche parte, e questa visione potrebbe coincidere con un senso di claustrofobia che si vive oggi nelle città. Il disco è rivolto a loro. Magari quelli che stanno in campagna non saprebbero che farne”. In campagna no, ma la canzone italiana sì, se è vero che mai come oggi si è sentita l’esigenza di un nuovo verbo capace di rimettere tutto in discussione.