Carlo Moretti in La Repubblica, 9 agosto 1998, p. 34
Fano – Odioso e arrogante, come probabilmente risultò in vita. Preda di un conflitto edipico, e anche invidioso del successo altrui. Questo è il filosofo Arthur Schopenhauer secondo il filosofo Manlio Sgalambro, autore e interprete della “commedia pessimistica” intitolata Gli Schopenhauer andata in scena con la regia di Franco Battiato ieri sera a Fano per il festival Il violino e la felce. Un filosofo misantropo e particolarmente misogino, che insegue il dolore e la noia convinto di essere l’unico al mondo a interpretarli, che nega il diritto agli uomini di lasciare un segno nella Storia. Insomma, un essere insopportabile che non avrebbe bisogno della recitazione ingrugnita di Massimo Popolizio. Sarebbe sufficiente far parlare il testo, che tra l’altro lo suggerisce pure: “Che stia lontano da me l’attore. Basta Schopenhauer a recitare Schopenhauer!”. Nel mondo come rappresentazione di Schopenhauer, ognuno si sceglie un ruolo per farne la sua vita. Così, nel palazzo di Weimar in cui abita il filosofo, ricostruito con una facciata ottocentesca che ha dato qualche problema tecnico durante l’allestimento, troviamo Adele nella parte della sorella docile e comprensiva (Anna Bonaiuto: “La donna è solo una rappresentazione dell’uomo, dice mio fratello. Io ero una rappresentazione di una donna”) e Johanna nella parte della leggiadra e odiata madre (Rada Rassimov: “Le idee di Arthur sono quelle dei nostri servi: la malvagità del mondo e simili lagne…”). Poi una corte di conoscenti e allievi del filosofo da questi maltrattati a suon di “imbecille” e “damerino”, il filosofo Hegel nel dialogo insulso con Schopenhauer che segna (avverte Sgalambro) “la fine dell’era platonica”. E Goethe (Sgalambro stesso) che nel corso di una festa a palazzo organizzata in suo onore recita una poesia in tedesco fuori sincrono rispetto alla traduzione che ne dà Johanna, una delle trovate meno riuscite dello spettacolo. Franco Battiato, regista dello spettacolo, riserva a se stesso un cameo nella parte finale di questa commedia in cui nulla o quasi è da ridere, se non forse il ciuffo di capelli che ha raccolto sul capo. Canta, nei panni del misterioso musicologo Fabre d’Olivet (lo abbiamo cercato inutilmente in due storie della musica) interpreta una canzonetta ispirata a moduli occitani del ‘200 e ‘300, su un frammento originale completato appositamente per Gli Schopenhauer: ispirata, ma niente affatto decisiva rispetto all’azione scenica. Un’azione che del resto si riduce ai minimi termini, per giustificare un testo che si risolve in un lungo dialogo filosofico. Nel prologo filmato che introduce la sua commedia pessimistica, Sgalambro si augura che il suo lavoro consenta allo spettatore di liquidare almeno per una sera il pessimismo, intrappolato com’è nella morsa del teatro. Non siamo in grado di dire se il risultato sia davvero stato raggiunto. O se lo sarà nella replica in programma questa sera sempre all’interno del teatro della Fortuna di Fano. Con Sgalambro ci auguriamo che “chi dice stasera vado a teatro voglia anche sottintendere io voglio vivere, ne vale la pena, ancora, ancora…”.