Mario Santagostini in Il Giornale, 1° aprile 1998, p. 16
Sgalambro su Nietzsche
Sgalambro da Lentini è un pensatore anomalo, ostico nell’aristocratica raffinatezza argomentativa e nell’enciclopedica allusività dei riferimenti. Non procede per deduzioni ma per sentenze, aforismi collegati da un filo conduttore modulato con pause, digressioni ritardanti e accelerazioni: unisce insomma il «pedale» del narratore alla fredda lucidità del saggista. Ricostruire in pillole il suo pensiero rovinerà la compattezza d’una architettura intellettuale maturata in anni di letture, riletture, antagonismi intellettuali. Forse, il vero avversario è la totalità, l’istanza che sovrasta i molti. E nemico è il mondo, che nel suo scorrere funge da nera, letale controparte all’individuo. Il quale può opporgli brevi resistenze solo rifugiandosi nelle rare zone della mente dove l’essere è pensato come il totalmente altro, l’inesistente: lì, l’Uno non può nulla, e l’individuo resta, per un attimo, saldo e ineffabile a fronte d’un tutto lontanissimo, non più subito ma contemplato.
Momenti di tale intensità valgono (e costano) una vita. Si cerchi dunque la visione pura che oltrepassa le cose visibili. E si aborrisca la teologia, che nel tentativo di afferrare l’aldilà e di conferirgli uno statuto razionale, altro non ha fatto che avvicinarlo al mondo, inquinarlo. Nel discorso teologico, l’infinitamente distante, Dio, è attirato dentro la rete dei concetti umani e degradato, guardato dal di sotto, come «dall’inferno», scrive Sgalambro nel Trattato dell’empietà. Lo statuto-ombra della teologia è la blasfemia. Ecco il teologo offrire un attributo a Dio: e giù una buona bestemmia. Ecco la cantilena dei nomi divini proseguire ad interim, e qualcuno che così s’illude di esaltare Dio: in verità sacramenta. Alla fine, un movimento perverso ha segato via proprio lo sguardo che tentava di andare oltre le cose. Rimane la vista insopportabile di un mondo appiattito, dove regna «un ordine losco», come recita il lugubre assunto che ricorre qua e là nei libri di Sgalambro. Il quadro è desolante. Misticismo, fede, amore, sesso, socialità, altro non sono che le varianti della tensione all’unità a cui l’uomo non oppone più di tanta resistenza e che la spinge verso l’illimitato. Diverrà poltiglia, testimonianza che «L’uno ha vinto». Il mondo non è insensato, come predicano scettici, atei e pensatori deboli. Al contrario: ha fin troppo senso. Un senso micidiale.
Eppure, Sgalambro non si accontenta d’un nichilismo di maniera. E tenta di interrompere «le scorrerie del mondo su di noi»: cerca insomma l’anello debole dell’universo, dove l’individuo può, invece di venire annientato, contemplare. Come molti pessimisti «storici» crede, o tenta di credere, alla redenzione estetica del mondo. L’astrazione matematica, per esempio, già è una costruzione che consente di «ammirare un ordine, anche mentre ci uccide», perché la connessione tra numeri, formule, principi rinvia a un piano d’inesistenza del quale atterriamo solo i contorni. Ma la loro forma ci incanta. E anche l’architettonica di un’opera filosofica è splendida. Non tanto per quello che dice quanto perché offre il profilo di un mondo ridotto a concetti: lontano, non presente. Mostra, insomma, la struttura visibile dell’irreale. E regala una nostalgia impagabile per l’inesistente.
E la poesia? Riesce a riformare il vivere? Pare di sì, se Sgalambro si abbandona a versi di Stefan George per i quali ci si può «lasciar impiccare». Attenzione: questa non è una predilezione casuale. George fu, tra i poeti, quello che con più forza aveva tentato di compendiare il mondo nell’immagine verbale: era l’allievo tedesco e marmoreo di Mallarmé. Sgalambro lo ama perché vede nella sua poesia l’espressione del pensiero puro che si oppone all’imperialismo dell’unità, la frammenta e la ricompatta in segni che rinviano altrove, fuori da spazio e tempo. Ma è un lampo, una intuizione privilegiata che non si trasmette, semi-onanismo intellettuale. Poi si torna a terra. A fare i conti con lo iato assurdo tra forma astratta e linguaggio reale: se la prima appare sublime, «parlare è un’attività inferiore»: in principio non è mai stato il verbo, che proviene invece dai recessi, dal fondo oscuro della vita. Il linguaggio è oralità, fiato, bava, muco. E allora poesia è impura. Altro che consolatorie riduzioni estetiche del mondo: verbalizzare l’esistente significa abbassarlo ai suoi lati elementari, attirarlo in una semi-escrementizia, bassissima ragione: la parola. Forse, la poesia è solo una più presentabile continuazione dell’imprecazione con altri mezzi.
E allora, nessuna sorpresa per il cupo smalto, per lo stravagante disimpegno che attraversano questo Nietzsche (Frammenti di una biografia per versi e voce), Bompiani, di Sgalambro, diventato qui poeta in proprio. Le proiezioni beatificanti del mondo vengono filtrate da una voce terrena, tetra e distruttiva come può esserlo l’ultimo piano dell’esistere. Qui si polverizzano alti e inattuali filosofi – Nietzsche incluso -, architetture spirituali. E la meditazione di Sgalambro da Lentini subirà, passando per il calderone della voce vera, devastanti contorsioni, perversioni. Così la sentenza sconfina nel moccolo, l’intuizione pura nella sua contro-immagine fecale. Il momento più infimo della vita, il verso, riduce la vita stessa a caricatura, trita in sé il mondo, restituisce alla pagina i resti: «di fare a pezzi il tutto / di fare a versi il tutto / questo è il tutto». Nietzsche sembra a volte un divertissement. Forse è la frase più umbratile d’un eccellente pensatore che si accanisce su se stesso, Come una ghignante, torva eutanasia.