Antonio Gnoli in La Repubblica, 25 gennaio 1998, p. 31
Intervista a Manlio Sgalambro
Roma – A leggere questo Nietzsche (Frammenti di una biografia per versi e voce) di Manlio Sgalambro, una raccolta di versi pubblicata nella collana pasSaggi di Bompiani (pagg. 71, lire 10.000) che sarà disponibile in libreria fra qualche giorno, si capisce perché Sgalambro può aspirare al ruolo del cattivo.
Intendiamoci. Non si parla qui dei cattivi che il cinema ci ha consegnato, anche se la faccia di Sgalambro potrebbe tentare qualche regista. E neppure della perfidia, così in auge in certi periodi della storia. Pensate all’intelligenza di Talleyrand.
No, la cattiveria di Sgalambro è scoperta, per certi versi persino disarmante: è un pensiero, il suo, che rema contro. Contro chi o cosa, direte? Contro quel mondo ricoperto di cioccolata che rende tutto più dolce, più bello, più monumentale.
E allora ecco lo Zarathustra’s song che «strippa, intrippa, allippa / sbraca, scavalla, scavezza: / scacazza il sophos della saggezza». Oppure il Fogliettonista Nietzsche che «scrive spiritosaggini / primo pensatore senza pensieri / sbanca le università». A leggere questi versi non colpisce solo l’irriverenza, ma ben di più quel senso di delusione che l’accompagna e che sembra dirci: purtroppo dio non è morto.
Sgalambro, non so quanto lei si riconosca in questa immagine di cattivo della filosofia.
«Spero che non sia un’offesa».
No, in fondo lei sa che i filosofi si riconoscono anche dalle predisposizioni, dagli stati d’animo. Socrate è ironico, Kierkegaard angosciato, Schopenhauer pessimista. Azzardo: Sgalambro è cattivo. Cattivo, per fare un esempio, come Thomas Bernhard che guardava la gente e la scuoiava con gli occhi…
«C’è una cattiveria ammirevole, direi nobile, per gli scopi che si prefigge. Ma mi auguro che lei non pensi anche a Previti».
Lasciamo fuori la politica, parliamo, come lei dice, di una cattiveria che si prefigge nobili scopi. Quali sono?
«Questa sua insistenza sulla cattiveria in effetti viene incontro a un mio disegno. Da tempo sto pensando di mettere in azione una sorta di antropomorfismo ragionevole al cui centro non vi siano più le categorie del bene e del male, peraltro già esautorate da Spinoza, ma quelle del buono e del cattivo. Sono categorie meravigliosamente mobili, pensi all’uso che ne fanno i bambini».
E lei ha scelto di essere cattivo?
«Non è Manlio Sgalambro che è cattivo, non parliamo cioè di odio, di risentimento. Ho abbracciato, semmai, una cattiveria metodologica, un pensare cattivo. Circola un’esagerata predisposizione al buono, e al contempo cresce il pessimismo werteriano, intriso di dolore cosmico. È tutta roba che offusca o annacqua la mente. La cattiveria ti offre la possibilità di vedere le cose un po’ più come stanno».
Contrariamente a quello che pensava Nietzsche, dio non è morto…
«Ma nessuno più si occupa di lui con la stessa intensità e malizia che usavano certe menti del passato. Perché, vede, ci vorrebbe una teologia che buttasse a mare la religiosità, salvaguardando Dio come potenza, come uno sguardo che ti penetra dal di fuori, come un grido che ti esce dalla gola. Sono un molochista, sono per un dio moloch, ma offrire sacrifici all’Essere non è il mio forte».
Un dio cattivo?
«Se guardiamo agli esiti del mondo, dio non è né buono, né intelligente. Occorrerebbe dominare dio, non già assecondarlo».
In che modo?
«Pensandolo. Come fece Cartesio che pensando trasse la certezza di sé, o Pascal che definiva l’uomo una debole causa dell’universo e che bastava pensarlo perché l’uomo dominasse l’universo».
Un atto di superbia.
«Vorrà dire che invece di morire umiliati e consapevoli della nostra finitezza, moriremo superbi. Sento in giro troppi discorsetti edificanti sul pentimento. Meglio un sano atto di superbia».
La stessa superbia e aggiungerei cattiveria che la porta a dire che Nietzsche scrive un solo vero libro, La nascita della tragedia, «per il resto», recitano i suoi versi, «una quantità di rimasugli e detriti / di pensieri comuni e idiozie. / Qualsiasi salumiere del suo tempo / aveva le sue idee. Peggio, / le aveva il Kaiser».
«Lei dimentica il verso successivo: “Ma lui aveva la forma / Cosa da bestia feroce / giunta al massimo di civiltà. / Uccidere o scrivere con stile”. Con Nietzsche inizia il grande giornalismo filosofico. Non con Voltaire, ma con Nietzsche che non scrive aforismi, alla francese, ma ha la capacità di ridurre la sua arte a un lampo che squarcia il buio. Una luce che non ha nulla in comune con il sole dell’Illuminismo».
Non lo abbassa un po’ definendo il suo stile grande giornalismo?
«E perché? È meglio forse associarlo, come fa Heidegger, ad Aristotele? La verità è che si sono celebrati troppi Nietzsche. È stato il più grande buffone della modernità e l’accademia lo ha sacralizzato, come si faceva con i Re».
Cattivo, superbo e ora anche dissacrante. A un certo punto nei suoi versi compare anche l’investigatore Marlowe. Ci stupisca, Sgalambro.
«Mi è parso a un tratto che vedere un investigatore all’opera, magari con le sembianze di Robert Mitchum, fosse meglio di un filosofo o di uno storico che avevano studiato Nietzsche. Che vuole che le dica: disprezzo la quasi totalità delle interpretazioni nicciane».
Perché?
«Perché oltre a essere cattivo, superbo e dissacrante sono anche sospettoso. Sono, per l’esattezza, sospettoso nei riguardi di coloro che prendono un’opera e la interpretano, credendo così di renderla esplicita. Invece di salvaguardare l’estraneità di un testo, lo rendono molle e arrendevole. Lo assimilano! Un tale atteggiamento è il portato di un’era di basso democraticismo che non consente di vedere nell’altro qualcosa di diverso e di inassimilabile. In fondo era anche l’ambizione dell’idealismo: capire il nucleo di un’opera e distruggerlo. Se lo ricorda il pensiero come atto puro? Fa ancora ridere la convinzione di Gentile che l’uomo era interamente pensiero, comprese le scarpe!».
Nei suoi versi si parla anche della follia di Nietzsche, un tema su cui in molti si sono avventurati. Lei che valore le dà?
«Per dirla con i positivisti dell’Ottocento, la considero nient’altro che un fatto. Improvvisamente un uomo diventa pura esteriorità. Si imbratta di escrementi, beve l’urina, balbetta. Nella follia, come nella morte, non c’è null’altro che esteriorità: un lento decomporsi dell’organismo. Siamo noi che riempiamo questi eventi di inutile pathos».
Per questo lei scrive che «essere poeta non vale niente»?
«Vale, credo, la materialità del verso, non mi interessano le cosiddette emozioni poetiche. I versi che io scrivo sono duri, cacofonici, non perfettamente allineati. Basta con i sospiri, le sofferenze, le emozioni. Per questo amo molto quel libro di Queneau La teogonia portatile».