Giuseppe Raciti in Ideazione, IV, n. 6, novembre-dicembre 1997, pp. 215-216
Ho conosciuto Manlio Sgalambro otto anni fa, in un occasione che voglio raccontare. Avevo appena finito di scrivere un piccolo saggio e mi venne l’idea di farglielo leggere. Ero in cerca di un giudizio autorevole, di un battesimo del fuoco. Il suo nome cominciava ad essere già abbastanza noto; il primo libro, La morte del sole, era uscito nel 1982. Io l’avevo letto con una fame strana, che la filosofia stimola raramente. Telefonai ed ebbi un appuntamento. Lui mi ricevette in una piccola stanza dalle alte volte, tutt’intorno un numero sconcertante di libri. Di fronte a me, un volto di selce scheggiata. Dietro due lenti à la Ernst Bloch nemmeno l’ombra di occhi “tardi e gravi”: piuttosto un guizzo levantino e persino una punta d’insolenza. Sgalambro è il genus loci di una città posta all’equatore dello spirito. A Catania, mi suggeriva un brillante conversatore, abbiamo anche il filosofo condotto.
Non fu un colloquio rapido. Cultore di Schopenhauer, Sgalambro impiega al meglio quel detto dei Parerga che suona pressappoco così: la cortesia è moneta falsa, dunque è da stolti tesaurizzarla. Così, ottenni persino l’onore di una postfazione. Ed ecco il punto. Il breve scritto che mi consegnò di lì a qualche settimana conteneva un attacco al cuore del libro. I motivi – assolutamente personali e antiscientifici, ma proprio per questo terribilmente oggettivi e filosofici – erano chiariti in questa chiusa esemplare: «Siamo sempre colpiti dall’“ingiustizia” di un pensiero che ci viola, che vuole toglierci la nostra verità e installarvi la propria. Ma in questi luoghi si regna uno alla volta». E a regnare era ancora lui. Fu una dura lezione.
Come chiarire questo concetto filosofico dell’oggettività? Faccio un esempio. Se un politico dicesse una volta tanto io anziché noi, mostrerebbe subito di pensare meno a se stesso che alla nazione. Sgalambro afferma qualcosa di simile quando commisura l’oggettività di una proposizione alla sua unilateralità. Oggettivo è ciò che mi riguarda in prima persona. Come un pugno. Obiettivo è ciò che riguarda tutti e nessuno. Come un teorema. Lo Zarathustra nietzscheano, che reca il celebre sottotitolo: “Un libro per tutti e per nessuno”, è il manifesto segreto del moderno obiettivismo scientifico.
Da ciò discendono varie conseguenze. Anzitutto la maggiore importanza attribuita al nesso cosmico rispetto al nesso sociale, il che si traduce in questo dato puro: più importanti degli uomini sono le cose. «Chi non sopporta di essere cosa, afferma Anatol, voce narrante dell’omonimo libro di Sgalambro, «manca il suo attimo». È una specie di carpe diem rovesciato. È la magia filosofica.
L’episodio raccontato all’inizio può far parte di un’appendice aggiornata alle famigerate Vite di Diogene Laerzio. Il tipo del filosofo non è cambiato. Non può cambiare. Il suo motto suona: se apri la mente, la svuoti. L’immobilità – non solo mentale – è la sua condanna; ma egli si stende beato sull’acciaio di questa etero-nomia. Proust ha scritto da qualche parte che il cadavere di un uomo socialmente “titolato” si decompone più lentamente degli altri. A questa felice boutade la filosofia risponde offrendo garanzie reali. All’opposto dell’uomo di scienza, che di norma fa sport per tenersi un po’ su, il filosofo è uno che non deve dimostrare mai niente, neppure l’età.
Una volta mi disse che un filosofo degno di questo nome non può formare una scuola, non può avere allievi. Ogni vera filosofia è sterile, aggiunse. È il tributo che si paga all’unicità della verità. Dunque ogni maestro è un cattivo maestro. Un giudizio che pesa soprattutto al di fuori dell’Accademia, per esempio nei pantani esoterici. Sgalambro non dà troppe speranze agli equivoci cacciatori di figure carismatiche. La sua filosofia non prosegue oltre la carta.
Ma si dirà: la carta è finta, il mondo è vero. Può darsi. Resta il fatto che la differenza tra un’arma vera e un’arma finta siede in questo, che la prima sopprime la realtà della morte, la seconda l’afferma.
Ho articolato questo colloquio in sei temi: terapia; fine del mondo; totalità; mafia (i.e. società); libro; notte. II rapporto Sgalambro-Battiato è stato sacrificato al grande tema dello spazio. Chiedo venia a tutti i musicologi, ma ancor più a tutti quegli spiriti purissimi che trovano l’Occidente, cioè il mondo intero, troppo stretto.