Giuseppe Raciti in Ideazione, IV, n. 6, novembre-dicembre 1997, pp. 217-221
Memorabile, ne La morte del sole, questa definizione della società: “La pace di tutti contro tutti”. Uno dei problemi sociali per eccellenza, così almeno si sente dire, è quello della droga. Ma alla proliferazione delle droghe si deve la nascita di una nuova istituzione, la comunità, che si affianca, last but not least, all’ospedale, al carcere, alla scuola e alla caserma. È certo che un’epoca di “decadenza” non potrebbe mai plasmare una nuova istituzione. Dunque, grazie alle droghe e alle terapie da esse sollecitate, abbiamo “fermato” il tramonto dell’Occidente. Sembra insomma che le droghe facciano bene alla salute del mondo. A farne le spese è il drogato, come un tempo il folle. A proposito: le speculazioni sulla follia sono finite da un pezzo. I francesi ci hanno campato per tutti gli anni Settanta. Oggi il pazzo è tornato a essere uno che si rimette i calzoni senza pulirsi il culo. I suoi testi, se ben ricordo, ignorano la follia. A me va benissimo. Ma a chi volesse vederci qualcosa sotto che cosa risponderebbe?
L’infermità nervosa è legata all’esistenza opaca e massiccia dell’universo. L’individuo fu reso pazzo dall’esistenza del mondo stesso. C’è certamente una pazzia originaria (vorrei ricordare Schelling). Mentre oggi per lo più la malattia viene privata della sua sostanzialità, da Freud, il più degno di tutta una insopportabile genia, avevamo saputo che la malattia nervosa è il trauma stesso dell’esistenza del mondo che ci colpisce a mazzate. La scena traumatica, infatti, è l’accorgersi violento di essere nati, di esserci. Nevrosi e psicosi, secondo Freud, sono tutte e due l’espressione della ribellione dell’Es contro la misteriosa esteriorità del mondo, della propria sofferenza, della poca disposizione ad adattarsi alla necessità, all’Ananke. L’infermità nervosa è un modo dell’accorgersi del mondo e nello stesso tempo il violento desiderio di annullarlo. Nevrosi e psicosi infine sono una modalità del nulla vanamente desiderato. Questa è la grandiosa eredità teorica di Freud. La terapia è invece una pietosa bugia detta, così all’ingrosso, pour gagner le pain.
La malattia dalla quale dovremmo guarire è nientemeno la stessa inguaribile esistenza dell’universo. Il duro colpo arrecatoci in illo tempore. L’offesa primigenia. La terapia in effetti si autodenuncia come aggiunta pretestuosa, come l’insanità stessa di ogni pratica. L’appello terapeutico non può salvarci. Noi siamo malati per essenza. La terapia fallisce perché essa non può guarire dell’esistenza del mondo. L’adattamento alla società è il misero resto di una impresa disperata che mantiene il sostanziale inadattamento. Si tratta invece di lasciare che nel malato esplodano tutte le potenzialità dell’infermità ed egli raggiunga pienamente quella annichilazione che infine lo appagherebbe. Ma in ogni terapia v’è insito il principio del valore affermativo, in fede di cui il terapeuta ha mano libera. Costui non ha sentito parlare di una salvezza attraverso la rinuncia ad essa. Forse una terapia quietistica potrebbe ancora legittimarsi, ma non ce n’è altro che un presentimento. Riconsegnare al mondo la sua vittima è infatti il fine occulto della psicoterapia che sta manifestamente dalla parte del carnefice.
Il suo modo di trattare il concetto di “fine del mondo” lascia il segno. Lei ne parla dappertutto. Ne La morte del sole. Nel Trattato dell’empietà. Persino nella Teoria della canzone. Ma credo che la trattazione più netta si trovi in una pagina di Anatol. Voglio parafrasarla così: se possiamo rappresentarci il mondo, e certo lo facciamo ad ogni istante, vuol dire che il mondo non c’è più. Per entrare nella mia mente, il mondo ha dovuto scomparire. La rappresentazione è la polvere sollevata dal crollo del mondo. Un giorno l’aria tornerà pulita. Da questa condizione di contemporanei della fine del mondo nasce, credo, la teoria della consolazione, “la morale per i morenti”, la sua dottrina etica. Ci faccia strada in questo scenario.
Un’intensa emozione di contemporaneità si diffonde nella nostra epoca come caratteristica fondamentale. Le tre classiche distinzioni – passato, presente, futuro – si riorganizzano all’interno della contemporaneità come categoria emergente. La contemporaneità domina l’emozione del tempo. Nello stesso momento affluiscono alla coscienza dimensioni temporali in apparenza non dominabili. La coscienza cosmica che sostituisce la coscienza storica si crea i suoi apparati e le emozioni opportune. Al culmine di queste emozioni sta la contemporaneità alla fine del sistema solare come emozione dominante. Ad essa gli Stati dovrebbero indirizzare gli scopi dell’educazione e all’ethos che ne emerge. Dovrebbero preparare esseri capaci di affrontare avvenimenti cosmici. Di maneggiare miliardi di anni e centomillesimi di secondo. Si scopre dunque che le dimensioni cosmiche possono essere dominate dal sentimento di contemporaneità. Non c’è più altra conoscenza che si possa prendere sul serio. Il ciclo di una conoscenza s’è chiuso, se ne apre un altro guidato dall’idea del tramonto del sistema solare, dai grandi fatti cosmici, dalla morte delle stelle, dalla temperatura zero, dall’idea del collasso finale. Questo stesso guida in generale la nuova idea di conoscenza. Qualcosa infatti ha mutato le condizioni mediante cui tutto ciò, almeno formalmente, restava lontano da noi, né poteva interessarci – ciò sembrava evidente a tutti – per la enorme distanza temporale, mentre era ovvio che ci interessassero Cesare e Napoleone. Qualcosa è avvenuto che ha fatto sì tuttavia che ciò divenisse solida conoscenza annullandone la remota distanza e tramutandolo in esperienza possibile nel più puro senso kantiano: l’avvento del sentimento della contemporaneità agli stati finali del nostro sistema. A partire da esso, all’ex parola d’ordine: storicizzazione del mondo, si è sostituita la cosmicizzazione in atto della storia. Badia-mo, tutto ciò non ha a che vedere con il brividino apocalittico, non ha nulla a che spartire con l’escatologia popolare ma appartiene alla grandiosa termodinamica (se così posso dire, io non sono un apocalittico, mentre riconosco apertamente di essere un termodinamico). In altre parole è un’emozione che consegue da un’idea di eccellenza. Si collega al sentimento del proprio valore. Al valore della propria conoscenza. Un “contemporaneo della fine”, dalla possente immaginazione, “vede” (come Platone “vede” le idee) le stelle spegnersi una ad una. Non si tratta, ripeto ancora, del banale sentimento gnostico-apocalittico delle suburre. Rispetto all’uomo occidentale il sistema solare è ormai entrato in agonia. Non perché si siano “superati” (in maniera ontica) i miliardi di anni che separano dalla morte del sole, ma perché si sono superati nel sistema del sapere. Nel senso di Kant, la fine del sistema solare si accorda con le condizioni formali di un’esperienza in generale. L’individuo oculare, il fellah delle scienze, la schiuma della cosiddetta cultura occidentale nel senso dozzinale, nella sua storia ha “creduto” in Dio pure essendone separata da quella che s’è chiamata eternità. Ha creduto o crede ancora che in illo tempore Dio ha “creato” il mondo e che ciò lo continui a riguardare assolutamente nel presente (al credente di ferro che si prospettava l’eternità assaporandone solo l’aroma, Malebranche faceva vedere che essa era di più, assolutamente di più di “mille milioni di secoli”). Ma lo stesso individuo ride se gli si prospetta l’agire della possibilità della fine del sistema solare sul presente. Egli non scorge nella contemporaneità una categoria reale. Ma si tratta in effetti di questo: tu sei inchiodato alla contemporaneità e i miliardi di anni sono foglie secche. Davanti alla contemporaneità scorrono come secondi.
Oggi lo stile totale del filosofare è forse disatteso dal fatto che il filosofo si occupa simmelianamente di tutto, da Dio alla canzone. Di tutto a scapito del Tutto. Credo che situazioni di questo tipo denuncino l’appetito totalitario della filosofia. Ma il totalitarismo riguarda ancora la parte, anzi: la Parte, cioè l’enfasi e persino l’isteria della parte. Il totalitarismo è la parodia della totalità. Un po’ come il tiranno è la caricatura di un uomo. Come replica?
Mille filosofi hanno un solo occhio, un solo filosofo ne ha mille. Io pratico ad oltranza l’unicità della filosofia. I processi sottili che sorreggono l’atto filosofico implicano anzitutto che esso sia attraversato da parte a parte dall’intenzione di verità. Secondo l’intenzione, nel momento in cui il filosofo pensa, egli pensa non solo la verità, ma l’unica verità. Nell’atto filosofico non scorgo molteplicità alcuna. Non soltanto non si mediano verità ed errore ma non si mediano verità e verità. I problemi tradizionali della filosofia li considero “immobili”. Non secondo la smania attuale del “problema”. Il concetto del filosofare non è sottoposto al concetto di progresso. Una filosofia non si può “migliorare”. Non si può perfezionare il pensiero di un pensatore (orrenda bestemmia!) senza farlo diventare il pensiero di un altro. Un’intenzione di sistema v’è sempre nei filosofi avidi. Confesso di essere uno di questi. Da «Dio alla canzone», dice lei. Ecco un esempio di questa avidità.
Sostiamo per qualche momento nella nostra città, a Catania. Le strade in cui passa il fercolo santagatesco1 sono le arterie che irrorano la città vera. Le strade commerciali e le strade, diciamo così, eleganti restano fuori da questo tragitto popolare: sono le arterie senza sangue che tagliano la città astratta e reale, la città da Zivilisation. Se pochi capiscono la mafia, forse è perché la sua natura è vera e reale, sanguinosa e astratta, popolare e finanziaria. La mente non sembra attrezzata per cogliere queste contemporaneità. Lei come vede questo nesso, senza meno ideale, tra città e mafia?
Ho un’idea di mafia che la prego di non dire a nessuno. Un tempo dicevo di occuparmi solo di mafia metafisica, e intendevo i limiti del mondo: Dio, la Morte, eccetera. Oggi mi inquieta qualcosa dentro, ma per dir cosi mi interrogo soltanto. Anzitutto una quæstio de methodo. Ambisco tornare a un sano cosismo e mi dico, con quel famoso sociologo, «i fatti sociali sono delle cose». In realtà nella mafia come concetto – lei sa bene che noi in quanto filosofi ci occupiamo di “concetti” – mi pare ci sia quella che si chiama una concretezza mal posta. Si dice “Mafia”, un’astrazione come “Male”, “Sofferenza”, “Delitto”, eccetera, e poi la si riduce agli individui che la compongono. Incorrendo così in quello che si chiama un cattivo infinito. In effetti ci si accorge che pur eliminando i “mafiosi” essa è sempre lì. In realtà essa è diventata una possente “astrazione”, come ad esempio “Stato”, “Polizia”, “Giustizia”, eccetera. E si può lottare effettivamente sradicando l’astrazione. Ad esempio, l’ateismo elimina Dio, non i preti. Mi spingo a dire che affermare «La mafia non esiste è più decisivo che sostenere il contrario. Eliminando il concetto di mafia restano solo i mafiosi, cioè degli individui insignificanti e spesso stupidi. Una feccia senza significato che riceve la propria luce proprio da quell’astrazione che si insiste a affermare, ignorando così che l’astrazione non si può distruggere con la polizia, la giustizia e così via, ma con una buona logica. Mentre i mafiosi, questi piccoli insignificanti individui, sì.
Si può azzardare un piedino fuori dalla coscienza senza cadere necessariamente in una filosofia francese, senza imbrattare pensieri e parole nella guazza del Possibile e del Molteplice. Insomma, senza confezionare il Modebuch, il libro alla moda. A proposito: non crede che gli editori dovrebbero smetterla di fare cose da editori e farsi editori di cose? Ho sempre pensato che il nichilismo fosse un’invenzione da Modebuch…
Tempo di nichilismo è quello in cui i valori, come si usa dire, sono scomparsi. In realtà è il tempo in cui i valori si sono realizzati come potevano. In questo tempo, cos’è l’editoria? Ci sono certamente tanti “libri” migliori di quelli che l’editoria pubblica, come ci sono, a quel che si dice, tanti mondi migliori di questo. Semplicemente, non esistono. (“libro”, anzi, è solo quello pubblicato, gli altri non sono “niente”). A me interessano i libri “reali”, l’editoria “reale”. E non certamente quello che gli editori “dicono”.
Il prolungamento farmacologico dell’esistenza media trova un corrispettivo oggettivo nell’estensione della notte pubblica. Curioso che la notte sia diventata il regno dei giovani, non crede?
La notte oggi è sicura. È il giorno pericoloso. E difatti il giovane di giorno si rintana. Anche i delitti, per lo più, avvengono di giorno. Nella notte regna l’anacronistico “mostro”. “Regno dei giovani” oppure è essa che regna sui giovani? La disposizione degli eventi si afferra di colpo, la notte. L’ordine regna sovrano. Il giorno degli adulti è disordinato e caotico, la notte mostra disciplina e intimità assieme. Domina una pace noumenale. I praticanti della notte regrediscono ai confini dell’inorganico dove è pace e eternità. I giovani sono i Führer della notte. Essi dirigono la politica della notte con tocco leggero e sapienza. Mentre la politica del giorno è greve e nefasta.
Bibliografia sgalambriana (per i lettori a venire)
Manlio Sgalambro nasce a Lentini nel 1924. Nel 1959 pubblica il saggio Crepuscolo e notte. Negli Anni Sessanta collabora con saggi e articoli alla rivista romana Tempo presente, allora diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Nel 1982 esce La morte del sole (Adelphi, Milano; seconda ed. 1996). Il libro viene tradotto in tedesco nel 1988 (Carl Hanser Verlag, Monaco) e attualmente è in corso una traduzione francese. Nel 1987 pubblica il Trattato dell’empietà (Adelphi; seconda ed. 1997), a cui seguono Del metodo ipocondriaco (Il Girasole, Valverde, 1989), Anatol (Adelphi, 1990; versione francese Circé, Strasburgo, 1991), Del pensare breve (Adelphi, 1991; è in corso una traduzione tedesca), Elèments de théologie (Circé, Strasburgo, 1993), Dialogo teologico (Adelphi, 1993), Contro la musica (De Martinis & C., Catania, 1994), Dell’indifferenza in materia di società (Adelphi, 1994), Dialogo sul comunismo (De Martinis & C., 1995), La consolazione (Adelphi, 1995), Teoria della canzone (Bompiani, Milano, 1997; seconda ed.). Ha scritto il testo dell’opera Il cavaliere dell’intelletto (1994), con musiche di Franco Battiato, e ne ha curato la regia. Sempre per Battiato ha scritto i testi delle canzoni degli album L’ombrello e la macchina da cucire (1995) e L’imboscata (1996).
- Il fercolo è il baldacchino in cui la patrona di Catania, Sant’Agata, circola per la città per tre giorni consecutivi, fino all’alba del 6 febbraio.