Giovanna Zucconi in L’Unità 2 (suppl. di L’Unità), 24 febbraio 1997, p. 8
Ultimo incontro
Scrivo durante il festival di Sanremo. Con adeguato tempismo, proprio in questi giorni un libriccino del filosofo Manlio Sgalambro: Teoria della canzone, editore Bompiani. Un paio di anni fa, Sgalambro aveva pubblicato un saggio intitolato Contro la musica. Però lui è uno che alla scena musicale prende parte: ha fatto il paroliere di lusso per il cantante-filosofo Franco Battiato, scrivendo fra l’altro il libretto dell’opera Il cavaliere dell’intelletto. Ora va a riempire un vuoto innegabile «la musica reale viene disertata dalla riflessione. C’è una teoria del rock all’altezza della situazione?»). Subito una frase cattura, riempiendomi di perplessità: «Teoria della canzone significa non che la canzone venga elevata a dignità dalla teoria, ma che la canzone eleva a dignità la teoria che se ne fa carico». Che cosa è successo? Mi pare di capire che esistono ancora un alto e un basso, qualcosa che eleva qualcos’altro. Ma quando trent’anni fa scriveva dell’immortale Mike Bongiorno, Umberto Eco spezzava sì i confini fra cultura alta e bassa: però era ancora la prima a conferire dignità e significato alla seconda. Ora è avvenuto un ulteriore ribaltamento, è la canzone a elevare la teoria, non esistono più confini, la contaminazione è totale.
Prendiamo atto, con liberatoria felicità o con orrore, a ciascuno il suo. Peraltro, Ron ha vinto lo scorso festival musicando un sonetto di Shakespeare, la Tamaro ha scritto quest’anno il testo della canzone di Tosca, Peter Handke teorizza sul juke-box, e intanto i cantautori producono romanzi (forse «elevando a dignità» il genere? alla dignità delle classifiche senz’altro, visto le vendite di Guccini o De Andrè).
In questo calderone, in questa postmoderna allegria di naufragi nel mare delle contaminazioni, sono rare le voci che al contrario rivendicano le differenze, le diversità; che dicono non è vero, non è tutto uguale, non tutto ha lo stesso valore. Per esempio, quella di Maurizio Grande. Critico cinematografico e teatrale (a lungo anche su Rinascita), professore di storia e critica dello spettacolo, autore di saggi su Billy Wilder, su Marco Ferrari, su Carmelo Bene, Maurizio Grande è scomparso lo scorso dicembre a 52 anni. La sua era un’intelligenza segnata da quelli che oggi consideriamo i mali del passato recente: l’intossicazione semiologica e strutturalista, il furore analitico, l’ideologia. Mentre altri compagni di strada, per esempio Alberto Abruzzese, hanno radicalizzato quel discorso critico immergendosi appieno nella teoria dei media, ossia nella contaminazione, Maurizio Grande si è liberato dal suo giogo in tutt’altro modo. Due anni fa ha pubblicato un libro difficile e bellissimo: Dodici donne, Pratiche editrice. Lì analizzava, sezionava, razionalizzava dodici figure femminili, dodici grandi personaggi della letteratura drammatica: Elettra, Salome, Lulu, Hedda Gabler, Filumena Marturano, pentesilea… Oltre che un grande esercizio di intelligenza saggistica, era un modo per riconoscere la differenza, per domare l’enigma, in questo caso l’enigma del femminile; un modo, e un linguaggio, tutti interni alla cultura alta.
Poi, anche Maurizio Grande ha varcato la soglia. Almeno in apparenza, da critico è diventato artista, si è «sporcato le mani». Come il suo maestro Emilio Garroni, filosofo che ha pubblicato anche racconti, a un certo punto ha scritto non sul teatro ma per il teatro. Uscirà fra breve, da Bulzoni, il suo ultimo libro, Una trilogia facile, che raccoglie tre testi scritti per il regista Sandro Berdini. Empedocle tiranno mette in scena il conflitto con la filosofia, Shylock e Faust quello con il potere, Lettera ad Antonin Artaud è un ritratto appassionato dell’artista maledetto: quando vi è di più lontano, insomma, dalla razionalità della semiologia… Eppure, Maurizio Grande non si è mai «contaminato». Non ha scritto una teoria del teatro, dove è il teatro a «elevare a dignità» la teoria. Il suo è un teatro filosofico: l’intelligenza critica si mette in scena, trova un altro (felice) linguaggio, e semmai è lei ad elevare il teatro, ma senza commistioni, senza confusioni. Dimenticate Sanremo e leggete libri come questo, che resiste con tanta fierezza, che difende la dignità del pensiero e anche la sua complessità, che rifiuta la moda delle facili contaminazioni. Leggete, resistete, e addio.