Franco Marcoaldi in La Repubblica, 15 febbraio 1997, p. 31
Padova – Si può trascorrere un’intera giornata con un famoso cantante e un filosofo eterodosso che con quel cantante da tempo collabora; filosofo che ha appena pubblicato un coraggioso libretto, Teoria della canzone (Bompiani, pagg. 64, lire 6.000), senza nominare mai la parola Sanremo?
Con Franco Battiato e Manlio Sgalambro, si può. In un giorno intero se ne dicono, e ne succedono, di cose. Si parla di vini, letteratura, fantasmi. Si va a vedere nel Duomo di Padova – freddo polare, e lugubri impalcature – l’intensa Messa arcaica dello stesso Battiato. Si mangia, si passeggia, ci si riposa. E naturalmente si trova anche il modo di ritagliarsi un’oretta buona per l’intervista vera e propria col filosofo, Sgalambro. Ma la canzonetta, quella che tra breve si farà la solita festa in quel di Sanremo, resta sempre ai margini del nostro discorso. A tutto vantaggio della canzone, del grande rock. Che Sgalambro chiama «musica per vivere».
«E questa è una novità assoluta nella nostra storia musicale. Perché esistere musicalmente non ha niente a che vedere con l’apprezzare la musica, esserne rapito, salire al settimo cielo. No, significa proprio: esistere nei suoni. In tal senso il rock è davvero un esempio significativo della condizione dell’uomo contemporaneo.
Mi spiego. Così come in passato si era imposta un’idea di salvezza, ora sembra invece che vogliamo perderci. E allo stesso tempo: così come attraverso l’idea di salvezza si mirava all’eterno, ora miriamo sempre più al fugace, a una durata da insetto. Per l’appunto quella stessa raccontata dalla canzone con i suoi tre minuti: contributo devoto a una dottrina del tempo… Chissà, se riuscissimo a vivere di minuti, anziché di anni e di secoli, forse la nostra vita dilagherebbe. Non se ne scorgerebbero così presto i limiti che ci sgomentano tanto. Ecco, ma questa specie di perdizione di cui parlavo, non è il mutrioso nulla accademico; parola ormai asfittica, totalmente chiusa in sé stessa. Come una palla da biliardo. No, questo nulla indica molto più semplicemente il desiderio, alla lettera, di divertirsi fino a crepare».
Sgalambro è outsider per eccellenza nell’ambito della filosofia italiana. Non è un accademico. Non lo è mai stato. Né per collocazione sociale; né per predilezioni tematiche; né per stile, scrittura. Si definisce uno “schopenahueriano infelice” e usa le parole come scimitarre. Per fendere la realtà, e prima ancora per combattere contro sé stesso. Insomma, non aspettatevi da lui un conforto canonico.
«Parlavo prima di questo desiderio di fugacità; di andare verso il basso, il piccolo. Perché, non dimentichiamocelo: il nostro è il tempo che rimpicciolisce. La tecnologia non fa altro. E il piccolo infatti, fatte le debite proporzioni, sta diventando altrettanto ossessionante di quanto lo è stata in passato l’idea del grande, dell’immenso, di Dio.
Ora, io credo che la canzone, il rock, questo dionisismo, questa frenesia, questo suono che è prima di tutto il battere delle cose sui nostri nervi, sia l’esempio più vivido dell’affermarsi del fugace, e del nostro desiderio di perdersi in esso. Ecco perché la canzone va trattata con rispetto; il rispetto dovuto all’indizio più vistoso di qualcosa che sta cambiando il nostro tempo. E che rende sempre più orecchio e suono giudici inappellabili delle nostre azioni”.
L’idolo polemico della Teoria della canzone, sarà bene dirlo subito, è Adorno, che non amava posare il suo sguardo sulla musica “bassa”. “In fin dei conti, ciò che fa palpitare Adorno è la stessa eternità, sono gli stessi significati dati alle cose prima che avvenisse questo spezzarsi della continuità storica della nostra civiltà. Anche la nozione di umano e umanità che Adorno adopera, è elegiaca, idilliaca, nostalgica. Adorno ha gli occhi rivolti lontano. Ma noi non andiamo lontano. Dico noi che stiamo al mondo, e cerchiamo di percepire quel che ci accade intorno. Noi anzi, non andiamo più né avanti né indietro. Andiamo a lato.
«Sì, è come se nell’essere umano si fosse aperta una crepa. E allora anche questa distinzione alto-basso, nobile-ignobile, non dico si stia capovolgendo, ma certo fa delle belle piroette. Proprio perché è orientata da questa dimensione della perdita, dell’insignificante, del minuto… Comunque sia, per la coscienza musicale odierna, la musica seria è il lungo grido di Jim Morrison nel concerto dei Doors al Singer Bowl. L’acuto di un soprano al Metropolitan è soltanto popular music».
Filosofo attratto dal «pensare breve» (tanto da averci scritto sopra un libro), Sgalambro pratica il «metodo ipocondriaco»: e quindi paradossi, sarcasmo, idiosincrasie, rovesciamenti. Ciò che lo porta ad esempio, sempre in polemica indiretta con Adorno, ad affermare che l’incontro vero con la musica si dà nel disco, non a concerto.
«Me ne sono reso conto proprio lavorando con Battiato. La vivacità, la concentrazione, l’estro della scoperta, le ritrovi tutte in sala di registrazione. Al concerto non si fa altro che ripetere quanto era già stato creato. L’espressione concerto dal vivo, fa ridere. Il concerto, è da morto».
Capisco. Ma mi piacerebbe tornare a quel movimento diverso, laterale, così caratteristico dei nostri giorni. Lei scrive, ed è difficile darle torto, che viviamo nell’epoca della paralisi dell’agire. Un agire che si sminuzza, si perde. Che non riesce mai a concludere, tranne che nel mero fare. Nell’agire per l’utile. In questo contesto, mi chiedo, non è tanto più pericoloso l’elogio del divertimento?
«Il divertimento che vedo intorno a me, non è di tipo edonistico. È inebetimento, ristupidimento. Il nirvana che si cercava nelle filosofie buddhistiche si dà nella ripetitività della danza in discoteca, nell’ottenebramento dovuto a un certo tipo di droga: questo è il nirvana occidentale. Non il Nulla con la maiuscola, ma questo piccolo nulla a portata di mano, di cui l’individuo ha bisogno per rinascere e vivere un’altra settimana».
Dimenticavo. Siamo nella hall dell’albergo dove alloggia Sgalambro. E come accade ormai in qualunque luogo pubblico, una musichetta ossessiva accompagna ininterrottamente il nostro dialogo. La canzone, scrive il filosofo siciliano nel suo puntuto libretto, tutto è fuorché “pappa del cuore”. Ma allora, questo Toto Cutugno in sottofondo? Bisognerà pur tornare a distinguere, tra canzone e canzonetta.
«Certo che va recuperata una distinzione. Come quella che faceva Adorno tra Sibelius da un lato, e Schönberg o Webern dall’altro. Con i primi, diciamo così, a far la parte dei Toto Cutugno della grande musica. Vede, quando penso alla canzone, io penso a qualcosa che deve avere un sentore di quanto sta accadendo. Voglio dire, possiamo anche spiegare Sono un italiano sociologicamente. Ma difficilmente poi, possiamo immetterla in questa frenesia musicale che oggi ci coglie».
La canzonetta, mi par di capire, sarebbe sempre meno influente. Anche nel suo tratto evocativo-nostalgico, da sempre suo massimo punto di forza.
«Io ho questa impressione. Non partecipa al grande sabba del rock, che vede nei suoni la finalità del mondo. La canzonetta resta fuori, ai margini. È un fenomeno colossale, ma residuale. Per questo non ho sentito l’esigenza di considerarlo. Col rock è avvenuto qualcosa di enorme. Di pari portata, e non suoni come bestemmia, a quanto era accaduto con la musica dodecafonica. Si sono liberati elementi che avrebbero dato a quella forma espressiva che chiamiamo canzone, una valenza straordinaria. Anche da trattato di morale, sì. Perché la canzone oggi non ha soltanto una funzione generica di ascolto musicale, ma anche la capacità di metterti in rapporto con l’altro. La canzone insegna relazioni umane. Hendrix il pazzo insegnava morale dal palcoscenico, come il vecchio Moore che scrisse i Principia Ethica e ci lasciò di stucco… Detto questo, forse ha ragione lei. Avrei potuto inserire, un paragrafo sulla differenza tra canzone e canzonetta».
Beh, allora: alla prima ristampa!