Berio racconta da Mozart a Zappa

Leonetta Bentivoglio in La Repubblica, 18 dicembre 1996, p. 35

Siena – Luciano Berio parteciperà questo pomeriggio al convegno L’umanesimo è una malattia? Un secolo, due culture, ospitato a Siena dal Centro universitario Le Scotte (previsti anche gli interventi di Battiato, Berlinguer, Bettini, Ciampi, Giorello, Placido, Scalfari, Scevola Mariotti, Sgalambro, Tabucchi e Veneziani). È un’occasione per sottoporre il più felicemente onnivoro tra i compositori (sono noti i suoi rapporti con Frank Zappa e Paul McCartney, e tra i suoi allievi figura Phil Lesh, bassista dei Grateful Dead) a quella serie di domande – collegabili al tema delle “due culture” trattato dal convegno senese – che anima il più scivoloso e giornalisticamente frequentato tra i dibattiti musicali odierni: è ancora possibile definire un confine estetico e ideologico tra musica classica e leggera? Fino a che punto si possono confondere pubblici, spazi e linguaggi? Quando e come la canzone è “cultura”? Partiamo di qui: dalla “cultura”. È stato Berio a dire che “cultura è tutto ciò che si fa, arte è come lo si fa”. “È una dichiarazione influenzata da un mio limite: la mia ostilità nei confronti del termine cultura, buono per tutti gli usi perché tende a separare quello che si pensa da quello che si fa. Se non vado errato, l’uso di questo termine un po’ discriminatorio è stato inaugurato solo nel secolo scorso in Germania (Kultur). È una dichiarazione, soprattutto, condizionata dall’esperienza musicale, dove non si può separare a priori il lavoro intellettuale dal lavoro manuale, il contenuto dalla forma. Cultura è tutto quello che si è e che si fa, sia il libro del filosofo che la canzone del cantautore. Quando quello che si fa tocca in una luce nuova e coerente, trasformandolo, quello che si sa e che si è ereditato, entriamo nella dimensione della scoperta e dell’emozione intellettuale nel senso più ampio e appassionato del termine. Cioè dell’arte”. Santa Cecilia ospita De Gregori, il Palafenice invita Lucio Dalla, Keith Jarrett suona al Regio di Torino… Operazioni che contribuiscono al rinnovamento del pubblico della classica? “Non credo. Sarebbe come voler rinnovare i fedeli di una parrocchia proponendo loro ogni tanto un rito copto o musulmano. Ci vuole altro per rinnovare il pubblico dei concerti, che è, ovviamente, un’entità molto complessa, marcato com’è dall’educazione, dal mercato, dai bisogni di aggregazione, dal feticismo e da tante altre cose. Se così non fosse potremmo chiederci perché non tentare l’operazione inversa e cercare di ‘rinnovare’ i frequentatori di una discoteca o di uno stadio con esecuzioni della Ottava Sinfonia di Mahler o della Nona di Beethoven”. Eppure è questo – confondere pubblici, eliminare consuetudini d’ascolto – l’obiettivo dei programmatori artistici. “Quelli, tra loro, che sono tentati di ospitare nelle sale da concerto musiche più o meno leggere devono innanzitutto far fronte a un dilemma. E cioè che tanto le sale da concerto (in Italia per ora c’è solo il Lingotto di Torino e, speriamo, nel prossimo millennio ci sarà a Roma il nuovo complesso musicale polivalente progettato da Renzo Piano) quanto i grandi teatri d’opera sono veri e propri strumenti musicali, disegnati, anche acusticamente, per un certo tipo di produzione musicale, così come un Amati o uno Stradivario sono disegnati per musiche che sono loro congeniali e che coprono quattro secoli di musica, dal Seicento al Duemila. Penso che portare un gruppo rock alla Scala sia come voler organizzare una cena di Capodanno agli Uffizi. Questo non toglie che nei tabernacoli musicali si possano avere eventi musicalmente interdisciplinari – magari con un solo esecutore – compatibili col luogo. Ma mi chiedo come mai i gruppi rock, che fanno largo uso di tecnologie spesso molto sofisticate, non si pongano il problema di esplorare e inventare acusticamente spazi diversi e meno ingombrati dalla storia. Anche la musica di oggi, quella che gli sciocchi e i mercanti chiamano ‘classica’, si pone questi problemi. L’Istituto Tempo Reale, per esempio, si muove in questa prospettiva, e tra l’altro sta perfezionando un progetto di collaborazione col gruppo Litfiba”. Ma intanto ovunque si assiste a una grave crisi di pubblico per la musica classica. Un critico musicale americano ha proposto provocatoriamente di proibirne ai giovani l’ascolto per renderla più appetibile… “La notizia della caduta della musica non rock, non pop o non altro (in nome di un elementare buon senso storico non mi è facile dire ‘classica’) si è diffusa perché il mercato del disco è saturo del repertorio classico (Mozart, Beethoven e Brahms). Questo lo sanno bene tutti i più celebri interpreti di oggi, che registrano sempre meno perché, per mezzo secolo, è già stato registrato tutto, e perché con l’avvento dei Cd e della ristampa digitalizzata delle vecchie registrazioni il mercato è stato letteralmente saturato e ha affievolito il desiderio, intrinseco da sempre all’esperienza musicale, di valutare diverse interpretazioni di una stessa opera. Ma nel bene e nel male il mercato esiste, deve poter vendere i suoi prodotti realizzando profitti. Se no che diavolo di mercato sarebbe? Insomma, i responsabili della multinazionale del disco fanno orecchio da mercante alla musica classica perché hanno orecchie di mercante. E anche quel certo critico ha orecchie di mercante: senza scomodare Marx, direi che la quantità numerica (di ascoltatori o clienti) influenza la qualità del suo giudizio. Mi sembra errato trasferire i dati della crisi di mercato del disco nell’esperienza dell’ascolto musicale dal vivo e nei dati relativi all’affluenza nelle sale da concerto, che in realtà sono quasi sempre piene di pubblico, spesso con un’alta percentuale di giovani”. Resta il fatto che il numero dei frequentatori di concerti è di gran lunga inferiore a quello degli spettatori di un concerto rock, così come la vendita dei dischi “classici” è inferiore a quella dei dischi di musica leggera. “Niente di strano o allarmante: è sempre stato così. Una volta non c’era una frattura tanto profonda fra musica popolare o leggera e la musica delle cattedrali, dei palazzi e delle sale da concerto, ma c’erano musicisti più ascoltati e più ‘famosi’ di Bach e Beethoven, loro contemporanei. Più vicino a noi, Johann Strauss figlio era molto più ascoltato di Brahms e Mahler messi insieme”. Si dice spesso, con tono sprezzante, che la sala da concerto è un museo. “La sala da concerto è anche un museo, e come tale necessaria. Ma la sua trasformazione, forse inevitabile, è lenta perché è un organismo più complesso e intangibile del museo, non fosse altro perché i pezzi che espone non provengono da un ambiente diverso. Un museo è un po’ come un’antologia; raccoglie per la maggior parte opere destinate ad altri spazi. Una sala da concerto invece, espone (esegue) opere musicali concepite per quello spazio e che vanno preparate e realizzate in quella sala. E poi una stagione di concerti è una faccenda più complicata di una mostra in un museo. Non è solo per mancanza d’ironia da parte di molti programmatori che una sala da concerto non può accogliere l’equivalente delle installazioni di Beuys, di Richard Long, le macchine sonore di Tinguely, gli assemblaggi di Rauschenberg o il pisciatoio (Fountain) di Duchamp. Quel che si può fare, però, è trasformarsi dall’interno, oserei dire spiritualmente. Un primo passo su questa via è non indulgere nella costruzione di cattedrali collocate in deserti socioculturali, ma costruire spazi nuovi e polivalenti, capaci di generare un loro contesto, costruire una loro città e un loro paesaggio che lascino aperta la porta a ulteriori trasformazioni delle funzioni musicali e, forse, del pubblico. Fabbriche musicali che sappiano stimolare la ricerca del molteplice e la coesistenza musicale, senza le superficialità e le inutili spettacolarità oggi così in voga”.