La Congiura degli Ermellini

Giuseppe Testa in La Sicilia, 15 ottobre 1996, p. 5

I vizi della politica, la virtù delle Procure: colloquio con Manlio Sgalambro

«L’eccesso di corruzione è soltanto un eccesso di giustizia»

CATANIA – Si va a caccia di corrotti e si espande la corruzione. Attenti, però: non è perché la corruzione sia più grave, profonda e diffusa che in altri tempi. In Italia, poi… Accade solo perché qualcuno, al modo che Pascal cercava Dio, cerca la corruzione perché l’ha già trovata. Insomma, il sovrappiù di corruzione che si vede è, appunto, quel di più che viene dalla voglia di guardarla in faccia: la corruzione che c’è e sempre ci sarà.
Sicché, l’eccesso di corrotti è anche l’eccesso di giustizieri.

«Perché ogni società umana funziona meglio se meglio si dosano virtù e vizi. E chi condanna il regno del vizio, con altrettanta forza condanni l’impero della virtù. Una volta si diceva: la Svizzera, però… Ora quel modello di società perfetta – senza grandi virtù, senza vizi estremi – è territorio della mistificazione».

Pare di sentire Orson Welles nel Terzo uomo. L’apologo del cucù che Welles ficcò di suo nella sceneggiatura di Graham Greene:

«Pensi all’Italia del Cinquecento: guerre, intrighi di corte, pugnali e veleni. Ma nacquero Leonardo, Michelangelo… E la Svizzera? Che cosa ha prodotto la Svizzera in seicento anni di pace? L’orologio a cucù».

Così, l’esordio di Manlio Sgalambro sul tema ispido, e forse per lui perfino insipido, dei cupi intrecci fra politica, giustizia e malaffare pubblico, l’incursione del filosofo fra le cimici e le talpe della Repubblica, fa già scintille. Facciamo un passo indietro e ricapitoliamo.

Dunque, dice lei, questa specie di esplosione del marcio in Italia è il rovescio della medaglia che sull’altra faccia mostra l’attivismo dei giudici. È così?

«All’ingrosso, così. Perché qui discutiamo, io credo, non della esistenza della corruzione, del fatto che la corruzione c’è, ma piuttosto di come la corruzione diventa visibile e tematica. Qualcuno, in un qualche momento, ha guardato la corruzione e l’ha resa visibile. Stiamo parlando, cioè, della consapevolezza. O della coscienza. Non della corruzione in sé, ma della coscienza della corruzione».

Se vogliamo, perfino della coscienza di sé che ha la corruzione. Nelle pieghe di alcune intercettazioni, poi finite sui giornali, si ha la netta sensazione – a volte sorprendente, altre francamente sgradevole – che gli interlocutori, sapendosi spiati, adottino scorciatoie, accorgimenti, allusioni… Una specie di lessico dell’imbroglio che quasi si vorrebbe tradisse una fenomenologia.

«Sì, certo. Magari, se potessero, parlerebbero tutti come quel governatore brasiliano che, negli anni Cinquanta, ammise davanti ai suoi elettori d’essere corrotto, e poi li invitò a considerare il fatto che governava lo Stato con le più belle strade, le linee ferrate più efficienti di tutto il Brasile. Fu rieletto».

È perlomeno dub-bio, però, che il signor Necci e i suoi compari abbiano dato all’Italia treni, stazioni e ferrovie migliori. Allora, è vero o no che in questo Paese la corruzione pubblica giustifica soltanto se stessa?

«Sì e no. A prima vista, sì. Abbiamo una corruzione sterile che non produce strade più belle. Ma sappiamo, o sospettiamo, o deduciamo che la corruzione in Italia è servita, forse serve ancora, a finanziare i partiti. Senonché i partiti sulla questione si sono chiusi a riccio. Ci hanno impedito di vedere, per così dire, l’uso della corruzione. Se non la sua necessaria finalità».

Oddio, ci fu quel discorso di Craxi alla Camera prima del diluvio. Ricorda? Il sistema si regge così e cosà – disse Craxi – può piacere o no, ma ci sono dentro tutti. Sembrò una clausola auto-assolutoria, o così fu interpretata…

«Questo è un Paese in cui, se uno annega, non può nemmeno dire che il mare è agitato. Comunque, è vero. I partiti hanno alzato un muro sul fenomeno che, forse impropriamente, va sotto il nome di “finanziamento illecito”. Questo ci ha lasciato alle prese con una corruzione spiegabile solo in termini d’immoralità privata. E cioè, in realtà, inspiegabile».

Poi, è arrivata Tangentopoli. Sono venuti i giudici e l’hanno resa visibile. “Tematica”, come lei dice. Cioè, ne hanno fatto la questione dominante del Paese. Si può, comunque, considerarlo un contributo alla conoscenza. Non vorrà negare che certi meccanismi di corruttela, certi complicati intrecci fra politica, grande industria pubblica e privata, alta finanza e questa o l’altra “cupola” affaristica, siano venuti alla luce proprio grazie all’opera delle Procure…

«Non lo nego affatto. Ma non è un caso che anche lei adoperi l’espressione “venire alla luce”. I giudici, cioè, hanno disoccultato la corruzione. L’hanno svelata, rivelata. Perché l’hanno guardata non con gli occhi del moralista che demonizza, ma con quelli del tecnico che ragiona, confronta e spiega. In tal modo, l’hanno enfatizzata. Non sto dicendo, badi, che ne hanno sopravvalutato l’entità. Sto cercando di dire, invece, che hanno rischiato e rischiano di darne una visione totalizzante, totalitaria. Una visione per la quale pure due chiacchiere fra amici – magari piene di malevolenza, insinuazioni, apprezzamenti, come capita appunto discorrendo fra amici ebbene, pure questo diventa indizio di corruzione. Una faccenda molto pericolosa. Un po’ come la storia del peccato… Dice Kierkegaard che fu il cristianesimo a mettere al mondo il peccato. Quel peccato. Il peccato dei sensi che nel cristianesimo diventa, da un certo momento in avanti, il Peccato per definzione».

Come e perché è accaduto? Com’è che i giudici possono tramutarsi in giustizieri? Quanto e come c’entra in questa perversione la politica? La lotta dei politici o la rinuncia alla politica?

«Questo è il punto più interessante, il più preoccupante direi, dell’intera questione. Bisognerebbe cominciare a studiare seriamente (ma qualcuno lo starà già facendo) com’è avvenuto questo fatto che i giudici si siano messi a guardare la corruzione che, per suo conto, esisteva di già. Questo a me sembra un buon lavoro per uno storico serio».

E il filosofo? Il filosofo non ha certezze in proposito?

«C’è stata una fase in questo Paese in cui si è pensato e scritto che i guidici entrassero in tribunale con un teorema bell’e fatto. E vergassero le sentenze obbedendo a quel teorema, piuttosto che basandosi su prove e indizi…».

Il famoso “teorema Calogero”, il processo a Toni Negri e ad Autonomia Operaia…

«Appunto, è stata la fase di certi processi ai terroristi, o a persone e gruppi accusati di eversione. Si è visto, poi, che i teoremi non portavano lontano. Allora, i giudici hanno cambiato metodo. Per non essere accusati di teorizzare troppo, hanno adottato sistemi più empirici. Caso per caso, accusa per accusa, reato per reato. Ora, però, non gli resta in mano che un laccio per legare assieme il “sistema corruzione”. Il laccio è il concetto semplice e devastante secondo cui, essendo tutti peccatori, siamo tutti perseguibili, inchiestabili. Oltre che fastidiosissimo per ciascuno di noi, questo laccio è pericoloso. La situazione è tale per cui, se al posto dei giudici ci fossero i militari, oggi grideremmo al golpe. Mi domando – ed è questa domanda che m’inquieta – perché la politica non gridi quanto meno all’espropriazione. Perché non risponda con atti politici a una situazione oggettivamente golpista».

Non sarà perché la politica, e cioè la guerra per il potere, si è fatta per troppo tempo attraverso le Procure? Non è un silenzio peloso il silenzio della politica?

«Se così fosse, sarebbe ancora più grave. Insisto: una politica vicariata oggi dai giudici, domani potrebbe esserlo dai generali. Questo dovrebbe far paura a tutti. Credo, però, che la smania di pulizia giudiziaria sia il più recente cascame di un antico sogno. Il sogno della società migliore, più giusta, più eguale. Tutta virtù e niente vizi. Un sogno già sognato, anzi inverato, fino a metà del Settecento, dai gesuiti che fondarono lo Stato sociale del Paraguay. Quello Stato del Sogno nacque, per l’appunto, contro la corruzione dilagante nelle colonie spagnole in Sudamerica. Per la verità, non c’era corruzione fra gli indios, ma nemmeno nazione, identità, coraggio, ragione di esistenza. Questo per dire dei danni provocati dal virtuismo, dai sogni virtuosi e dagli sforzi di virtù».

Quel sogno l’ha sognato la Sinistra. Se è così, pensa anche lei che soltanto la Sinistra può arginare il fiume giudiziario che tracima?

«Si, è stata la Sinistra a sognare. Ma non si sogna impunemente. Di quel sogno è rimasto alcunché. Magari uno, dieci, o cento giudici che pensano: “Ho il dovere di far bene il mio dovere”. Allora, torno a chiedere: e se anziché dir giudici, parlassimo di generali? Che vuol dire per un generale “far bene il suo dovere”? Perciò, parli la politica. Parli con atti politici. La smetta con gli esercizi retorici, con l’oratoria, prima di precipitare in qualcosa di molto simile al “complotto dei medici” nell’URSS del dopo-Stalin. Mosca era in mano a una gerontocrazia. In realtà, dipendeva dai medici personali dei vegliardi al Cremlino. Qualche volta, dalle  infermiere. Ora, non so se la Sinistra, di certo la politica in Italia oggi corre colpevolmente il rischio di una simile congiura».