Il filosofo & il rapper

Elvira Seminara in Vivere Giovani (suppl. di La Sicilia), 5 luglio 1996, p. 3

Sgalambro e Jovanotti dietro le quinte: la ragione e l’istinto

Un nome, un destino. Mica è da tutti chiamarsi Cherubini, avere un padre che lavora al Vaticano, respirare il culto di Madre Teresa di Calcutta e aver vissuto nella Cortona attraversata dal Beato Angelico. Sarà per questo che Lorenzo Cherubini, in arte più profanamente Jovanotti, ha conservato addosso l’odore dell’incenso e una risata furba da pecorella in via di perdizione? Comunque sia, eccolo a Catania per un curioso incontro con il filosofo Manlio Sgalambro, invitato nell’ambito del programma comunale “Catania estate” addirittura non per cantare ma per parlare di letteratura, o meglio quella che si travasa nei testi di canzoni. Ed è così, dinanzi a un pubblico di giovanissime che lo amano a memoria, dalla visiera ai piedoni, che prende forma il Jovanotti-pensiero, una filosofia del vivere che nella sua semplicità ha persino qualcosa di scientifico, di metodologico. Insomma, Jovanotti, sei così ingenuo o ci giochi?
Se la vede lui. Di sicuro, è un Grande Comunicatore. Carpisce il senso immediato delle cose e lo vaporizza in rap, usa le parole come i pezzi del Lego, smonta e assembla, e il resto va da sé.
“Ma non sono così ingenuo – corregge – vedo bene il male e tutto ciò che non funziona, sono idealista ma non cretino. La mia filosofia è diversa, io non punto sull’inconsapevolezza. Al contrario, credo nell’energia che si sprigiona nelle cose, credo nella vita da vivere, non quella da subire. Voglio comunicare che bisogna credere comunque, e non importa se ti contraddici e credi insieme a Che Guevara e a madre Teresa. Non so se riesco a spiegarmi”.
Bravo ragazzo, non buon selvaggio. Romantico ma non sognatore. “La fantasia non è un esercizio che mi piace, e non c’è bisogno d’inventare per raccontare storie. Basta viverle”.
Piccola filosofia in pillole. Tanto che il suo Ombelico del mondo è un religioso passaporto per tanti, un mix di pace orientale e subbuglio metropolitano, ascesi sensitiva e gusto pieno della vita.
Il suo talento è il candore, tra le sue armi il sorriso. Ma come nasce, per il resto, Jovanotti? Certamente non a tavolino, nel senso che la scrivania non rientra tra le sue esperienze. Ignorante vero, non contraffatto né simulato: lo non ricordo di aver mai avuto un libro tra le mani da ragazzo, i Promessi Sposi li ho letti sul Bignami, ho cominciato a girare qualche pagina sui 23 anni, ma senza grandi conseguenze. Sgalambro? So che è un grande filosofo, io ho provato a leggere la sua Morte del sole, ma non ci ho capito niente”.
Ma insomma, come nasce la canzone? Lui più poeticamente dice: “Una canzone accade. Io la devo inseguire, rincorrere. Di solito porto con me un quaderno per scriverci sopra le parole o le idee che mi hanno colpito, pensate da me o da altri. Poi le metto insieme così, le infilo in testa in modo alogico, sino a che non prendono vita da sole, in un ritmo vero. È importante la cadenza, la rima, ma anche il senso. Il rap dà vitalità fantastica alle parole, dà fisicità. Le mie sono canzoni reattive, trasmettono energia. Una canzone è un posto, un luogo dove si incontrano tante cose anche involontarie”.
È ignoranza, questa? Dice il filosofo, cioè Manlio Sgalambro: “C’è un’ignoranza felice e senza peccato, c’è un sapere corrotto e plumbeo. L’ignoranza di Jovanotti è gioiosa, solare”. Parola di chi conosce la morte del sole. Mica ignoranza allegra o compiaciuta, dribbla Jovanotti. “Ragazzi non fate come me, studiate e leggete, che allarga la mente. E imparate le mie canzoni”.
A proposito, su una cosa sono tutti d’accordo, l’austero filosofo e il sensitivo cantante: la canzone è un genere d’arte a tutti gli effetti, è un corpo artistico con la sua autonomia e dignità, riflette il secolo nella sua armonia e nei suoi rumori.
L’elementare Jovanotti dubita, muove le gambe che non finiscono mai: ma proprio tutte le canzoni di tutti?