Jovanotti, la canzone in parole

Elvira Seminara in La Sicilia, 3 luglio 1996, p. 27

Estate catanese – Gran folla lunedì sera al palazzo centrale dell’Università per l’incontro con il «rapper»

Un curioso e intrigante «duetto» tra Lorenzo e Manlio Sgalambro

Catania – Cosa ci fa l’ilare Jovanotti accanto al tenebroso Manlio Sgalambro? Cos’hanno in comune, alle tiepide ore 21 della sera di lunedì primo luglio, oltre il tavolo che li unisce nel chiostro pieno e pulsante del palazzo centrale dell’Università?
Ad associarli, meno forzatamente di quanto appaia, il programma comunale «Estate ’96. Passato presente e futuro», inaugurato appunto con l’incontro letterario «Testi di canzoni». E oltre il tavolo, un altro dato comune: la visione della canzone come forma artistica completa e irripetibile, un genere dotato di una propria cifra e dignità. La canzone, anzi genere d’arte che più di ogni altro, nella sua fusione di forma – contenuto – parola – musica, rende il nostro secolo, come la lirica quello passato.
L’incontro comincia appunto così, con Sgalamhro che illustra al pubblico la sua teoria della canzone, mentre nel più sacrale silenzio le infinite ragazze non la smettono di fotografare il loro idolo. «Nel corpo sonoro della canzone – incalza Sgalambro – si rispecchia anche il nostro ritmo della vita, e la canzone non ha bisogno di una teoria che la legittimi anzi è essa stessa a dare dignità alla teoria». E infine, Dio – si dice – non creò il mondo canticchiando?
I ragazzi sussultano sulla sedia, si alzano scattano sospirano. Lui, Jovanotti, invece guarda attonito, con la bocca aperta e gli occhi smarriti, il «professore» (lo chiama così) che esprime quei concetti altissimi. E dire che a lui una canzone gli pareva una canzone e basta. Sotto il tavolo agita le chilometriche gambe, poi si alliscia il pizzo biondo, si aggiusta la visiera incredulo.
Ma a rincuorarlo, a dargli fiducia, bastano i sorrisi estatici delle ammiratrici, cui lui restituisce una serie infinita di sorrisi bambini. Tant’è: il verbo passa a lui, e lui l’acchiappa a ritmo di rap. «Dunque, vi spiego come faccio questa cosa che è una canzone, che è una cosa autonoma completa nei suoi tre minuti, come ha detto il professore nella cosa che ha letto». L’italiano è basico, persino un po’ grezzo, ma prende e scorre come una bibita con le bollicine. Scivola, s’infrange, emerge.
«Sono un ignorante – spiegherà dopo, come a mettere le grandi mani avanti – non ho praticamente letto niente, e non mi fingo diverso da quel lo che sono». Applausi. Torniamo alla canzone. «È un posto dove nascono e confluiscono altre cose, emozioni, ricordi, idee. Una canzone accade. E per averla devi inseguirla».
E non è poesia anche questa? Prosegue: «Le mie canzoni a differenza della maggior parte delle altre non sono descrittive, ma reattive. Non vogliono raccontare sentimenti o storie e basta, vogliono trasmettere una volontà precisa. Volontà di vivere, non di subire la vita come qualcosa che ti cade addosso. Come ho scritto in quella mia canzone, io penso positivo perché son vivo / finché son vivo / niente nessuno al mondo / potrà
fermarmi dal ragionare».
Semplice no? E uguali, semplici, sono le domande del ragazzi che cominciano a intervenire. Usi nel testi la fantasia? Le storie d’amore che tu canti sono vere? Non ami troppo gli slogan? Posso baciarti dopo la risposta?
Per tutto ha parole, si racconta senza prendersi sul serio, giocando con un candore che diventa provocatorio, scherza, fa ridere, si scopre. «La vita tutta va rappata, giocata con autenticità, immediatezza, ma credendo nei valori, anche contraddittori». Alla fine una «serenata rap» tenera e sgangherata, senza strumenti né prove. Ma va bene lo stesso. E poi il furioso, gioioso assalto per l’autografo, da incollare sul diario dono averlo rigirato fra le mani, in estasi.