Mondo indigesto

Giancristiano Desiderio in Secolo d’Italia, 26 maggio 1996, p. 15

Ripubblicato La morte del sole di Manlio Sgalambro

“Troppo intellettualismo nella riflessione del filosofo siciliano: l’osservazione del male, della follia del tutto, del non senso dell’esistenza implica una considerazione del reale solo alla luce della catastrofe finale, dell’estinzione dell’universo. Questa sua visione determinerebbe il trionfo dell’inorganico, della materia immateriale, del caos”

AH. questo Manlio Sgalambro. Non so mai se biasimarlo o esaltarlo, leggerlo o mandarlo al diavolo. Forse, a conti fatti, mi converrebbe spedirlo subito all’inferno prima che lui lo faccia con me. Ma all’inferno già so andarci da solo, e poi, se lo facessi, dovrei smettere di picchettare le lettere di questa Olivetti e l’articolo sarebbe finito prima di iniziare. Sapete che c’è di nuovo? Diamoci sotto. Dopo tutto l’astuzia della rappresentazione, come sostiene lo stesso Sgalambro, funziona anche in me e mi spinge a vivere e a fare nonostante la mia volontà di morte. La rappresentazione è la distrazione dello spirito.
Diamoci sotto. Non solo lo leggo e lo critico, ma vi consiglio di leggerlo lo Sgalambro de La morte del sole, l’opera edita per la prima volta da Adelphi nel 1982 e ora ripubblicata e mandata di nuovo in libreria a fare il suo dovere. Sputtanare il mondo. Quel mondo che Sgalambro pensa come uno Schopenhauer redivivo e che non riesce a trangugiare, a mandar giù come vorrebbe l’idealismo, perché, proprio come la volontà involontaria di Schopenhauer, il mondo non si lascia accalappiare dal pensiero, ed è mostruosamente libero, libero come una bestia feroce che con la sua violenza terrorizza l’uomo, il quale altro non può fare che ignorare l’orrore del vero e, come uno struzzo, affondare la testa nella sabbia per non vedere, non sentire, non sapere.
Dinanzi a questo spettacolo, Sgalambro sta diritto, in piedi, a testa alta, e con gli occhi ben aperti non attende l’aurora dello spirito, che è illusione, ma osserva il suo tramonto, il compimento della noia, l’eterno schifo. Altro non c’è da fare: «una volta trovata la verità, come uomini bisogna starsene alla larga e come filosofi non c’è più altro da aggiungere. Così fece Schopenhauer».
Il filosofo siciliano non si piega alla Prassi e si esalta con il primato del bios theoretikos. Il volto del male. la follia del tutto. il totale non senso, non lo spaventano se non per il dispiacere di sapere. Più c’è paura, più c’è terrore più c’è filosofia. Il filosofo ha un solo desiderio: guardare in faccia l’Oggetto del desiderio che, imbattibile, domina tutto: l’individuo, la società, la storia, la natura, il cosmo. Impietoso come la verità. Esso domina tutto, è al di sopra e al di sotto di ogni cosa. Il pensiero non riesce a risolverlo in sé, a trasformarlo, ad abbracciarlo. L’Oggetto è letteralmente impensabile. Ci si avvicina, ma si è respinti. Eppure di Lui non c’è niente da sapere, perché l’Oggetto è una cosa in sé.
Non custodisce niente se non la più totale insignificanza: la morte della morte che non è la vita, ma la morte di ciò che Nietzsche già considerava un rimedio: la morte dell’eterno ritorno, la morte del sole, della natura, è il trionfo dell’inorganico, della materia immateriale, del caos. Lo scandalo dell’entropia conduce l’universo alla sua estinzione. Qui il soggetto cede il passo al triste primato dell’oggettività, che solo si lascia avvicinare dalla luttuosa matematica. Vedere le cose alla luce di questa meta finale equivale ad esser contemporanei della morte. «Il vedere tutto alla luce di essa. già distrutta la vita, ogni cosa in un’eterna quiete, è vederlo come un giorno apparirà. Ma appare già oggi per chi sa scorgerne la sua contemporaneità morfologica con noi. Si tratta di vedere già il mondo alla luce di questa catastrofe finale e richiamarsi sui da ora a essa come contemporanei».
Fin qui Sgalambro. Ora, che dire? Già la giornata è complicata e insopportabile cosi com’è. Ci manca solo chi predica – nel senso del predicato – la morte. A volte Sgalambro, più che un filosofo, sembra un testimone di Geova. Se le parole hanno un senso pur nel più totale non senso, non rimane, allora, che tirarsi un colpo di pistola. Ma se non lo fa Sgalambro perché dovrei farlo io? O voi? Ogni cosa a suo tempo. Ce ne andremo come il sole, tanto vale stando al mondo fare i conti con il mondo. Qualche annotazione critica è così possibile prima di crepare.
Va dato atto a Sgalambro di non fare una «filosofia utile», come dice lui, servile. Non filosofa per qualcuno o per qualcosa. Filosofa non per dovere o per campare, ma per piacere o disinteresse e, tutto sommato, che bel paradosso per questo Egesia nostro contemporaneo, per sopravvivere spiritualmente. Pur essendo contro la vita, quella di Sgalambro è una filosofia che nasce dalla vita. Per il pensiero è una boccata di ossigeno. Basta leggere alcune cose: «Ma il concetto di decadenza richiede una riflessione preliminare. Obiettivamente il problema della decadenza si ricongiunge a Hegel. L’età della vecchiaia del mondo è l’età medesima in cui il sapere raggiunge la sua maturità. Proprio qui si illumina lo splendore del paradosso della decadenza: essa è il momento in cui i lacci che vincolano il sapere cadono per una grazia. I torbidi interessi che insidiano la conoscenza, che la umiliano quotidianamente: i suoi turbamenti che la vita al suo acme acquieta col suo barbaro vigore, tutto cessa, ed ecco, si vede il tutto in una visione folgorante e poi in esso, nella nostra miserabile condizione. Il momento più basso della vita è l’osanna dello spirito». Eccola qui la decadenza: «Non si può essere reazionari perché non c’è dove tornare: non si può essere progressisti, perché non c’è dove andare». La conoscenza rivela qui tutta la sua forza e tutta la sua inanità. Non può far altro che attendere di essere risucchiata dal niente. Ma arriveranno i «barbari» e salveranno la civiltà: «La volontà erompe daccapo da sorgenti inesauste, la forza. l’impeto, e l’oblio del male…
… L’oblio del male è la caratteristica di quella civiltà che l’ha nominato. Si plaude dunque all’energia che ci fa risalire dall’abisso: ma perché essa sia buona, e se lo sia, lutto questo già suppone il male della guarigione. che essi chiamano la guarigione del male». Stare in piedi, in queste condizioni è pietoso e penoso, altro però non c’è da fare se non quella solita soluzione di consegnarsi all’eterno prima del tempo.
Dato a Sgalambro quello che è di Sgalambro e che pur ci trova d’accordo in un disincanto che sa di pietra, è ora tempo di muovere almeno una critica. Una, ma radicale. lo ti accuso, caro Sgalambro, di ciò da cui tu già ti difendi scrivendo: «L’intelletto è giudicato astratto allorquando non è al servizio. Il che significa che si può capire solo ciò che si può sentire e volere. Intelletto sì, ma con le dande».
Questo tuo giocare d’anticipo non ti libera dall’errore, e io ti accuso di intellettualismo. L’intelletto, per non mettere le dande, diventa schiavo di se stesso. È vero che l’idealismo, per paura di affrontare il mondo, lo trangugia, ma è anche vero che il mondo risulta indigesto e così lo sputa. Senza questo «pasto nudo» il mondo rimarrebbe «là fuori» e l’intelletto sarebbe del tutto inadatto ad afferrarlo, visto che è poco più di una finzione dell’uomo. L’importante `e saper «sputare» il mondo oppure «rovesciarle» come facia Hegel.
Non era forse anche le stesso Schopenhauer un idealista? Non è forse la rappresentazione una gran prostituta che fa entrare chiunque la voglia, il mondo? Non è forse ogni legge fisica una costruzione della mente?
E quante volte poi il mondo è morto? Un’eternità di volte, nessuno ci vieta di pensarlo. Solo l’intelletto nella sua solitudine si rifiuta forse di pensarlo. Soggetto e oggetto è molto più difficile separarli che unirli, e la coscienza, da Cartesio a Hegel, per quatto sia il regno delte ombre e degli equivoci, è anche l’unico luogo che abbiamo a disposizione per capirci tra di noi e meravigliarci o terrorizzarci di stare al mondo.
Dopodiché le cose rimangono come prima e in piena decadenza la noia e l’angoscia vengono sopraffatte dalla incapacità de avvertire dolore e, ahimè, perfino gioia.