Manlio Sgalambro in Il Sole 24 Ore, 28 aprile 1996, p. 26
Politica e morale. Indagando il rapporto tra disperazione e buona condotta
Una riflessione in compagnia di Hegel, Nietzsche e Scheler
La filosofia – o chi per essa – ha cambiato innumerevoli volte scopi e mezzi. Ma su un punto può vantarsi di avere conservato immutata la stessa convinzione se, ancora oggi, Scheler può sostenere il principio «che solo colui che è felice potrà volere e agire moralmente». Anzi, sempre a detta di questo importante filosofo, «potrebbe essere che la beatitudine fosse sicuramente il fenomeno d’accompagnamento necessario dell’esistenza di ogni persona buona e, inoltre, la “fonte” essenzialmente necessaria di ogni comportamento buono». In altre parole, spiega Scheler, «solo la persona felice può avere una volontà buona e solo la persona disperata deve essere cattiva anche nel suo volere e nella sua condotta». Per quanto Socrate riscuota l’ammirazione e il rispetto indiscusso di ognuno, di fronte ad analisi accurate e sapienti come quelle di Scheler, bisogna inchinarsi, se è possibile, con ancora più rispetto. Certo, sapere che Scheler è del parere di Socrate è rassicurante, ma a prescindere da questo – che interessa, infine, oggi essere d’accordo con Socrate? – resta, come ci si direbbe giustamente, che i giudizi di Scheler sono validi per sé stessi e non perché coinciderebbero per avventura con quanto può aver detto o pensato Socrate. Il disperato che non accetta la vita come è, in poche parole, sempre secondo Scheler è malvagio proprio per questo.
Hegel accenna, da qualche parte, a un metodo ipocondriaco che si spaccia per speculazione, ma invece, egli tiene a precisare, non è che talento poetico (Solger’s nachgelassene Schriften und Briefwechsel, Werke, XX, pagg. 156-157). Come uno qualsiasi vediamo qui Hegel ridursi a considerare vana fantasticheria tutto ciò che deriva dalla passione. Non è che Hegel minimizzi il ruolo da essa giocato nella realtà. «L’idea – egli dice, com’è noto nelle Lezioni sulla filosofia della storia – paga il tributo dell’esistenza e della caducità non di sua tasca, ma con le passioni degli individui». Semplicemente, si sa anche questo, per Hegel la passione è un’astuzia della ragione e non, invece, come almeno qualche volta, un’astuzia della passione stessa. In effetti, il metodo ipocondriaco è essenzialmente il metodo, se c’è concesso dirlo, della disperazione. E la disperazione, comunque la si voglia considerare, ha una sola conclusione che Nietzsche – che nello stesso tempo edifica la sua filosofia come il più valido baluardo contro di essa – formula così: «Noi siamo maturi per non essere». Noi, cioè, la nostra epoca.
Per chi pretendeva di avere risolto ogni “non essere” nel divenire, questa conclusione – che, ripetiamo, si trae unicamente dalla disperazione – non poteva essere che insulsa e pretestuosa. Anche l’ipocondria, per continuare a esprimerci con Hegel, dev’essere, dunque, risolta nell’‘affermazione’ che coinvolge tutta la realtà nel suo amorevole abbraccio. In altri termini, il disperato non ha voce in capitolo e non può certo dettare leggi. Per quante siano le risorse del suo ingegno e i tesori della sua esperienza, egli è tagliato fuori dalla conoscenza e da tutti i suoi effetti. Come abbiamo detto, il massimo che si può concedergli sono, infatti, le “farneticazioni” della poesia.
Se diamo ancora ascolto a Hegel, nella tragedia «l’ultimo elemento non è soltanto l’infelicità e la sofferenza, ma la soddisfazione dello spirito; solamente allora la necessità di ciò che avviene agli individui può apparire come la razionalità assoluta e l’anima è moralmente calma. Essa è turbata dalla sorte degli eroi, ma appagata di fatto». così ieri i greci avevano sopportato infelicità e sofferenze di ogni genere, in una delle epoche più drammatiche della storia dello spirito – si pensi, a esempio, alla caduta delle loro speranze politiche – e, così, dobbiamo sopportarle oggi noi. Allo stesso modo, l’avventura individuale di Hegel che, secondo quanto ebbe a scrivere egli stesso in una lettera, si era iniziata con l’ipocondria e la paralisi davanti all’agire, con l’impossibilità di vivere nel “mondo esistente”, si concluderà poi col ricordo che, tuttavia, questo è stato sempre possibile. Nondimeno non è un episodio che possa restare solo personale quello che, nella lettera citata, Hegel riferisce; se si pensa che la Fenomenologia dello Spirito e il “sapere assoluto” a cui essa pone capo, ne saranno la conclusione, si può vedere sino a quale punto tutto ciò ci riguardi.
Vediamo qui comparire quella “ipocondria” che sotto nomi diversi connoterà sempre più insistentemente la situazione odierna e quella “paralisi” da cui, dopo Hegel, ci si convincerà che il solo sapere non è in grado di liberarci, ma neppure, come poi si vide, la sordida prassi. Naturalmente in Hegel il destino di questa liberazione è unito al destino della sua filosofia; egli si libererà della paralisi e potrà daccapo muoversi, ma in una sola direzione: egli potrà andare solamente indietro, non avanti. Per andare avanti, si ritiene, bisogna mutare il mondo, insomma rimuovere tutto ciò che rende impossibile vivere. Ma poiché Hegel, per quanto lo riguarda, si libererà della paralisi e della ipocondria mediante il sapere, egli non potrà che andare indietro: il ricordo che “ieri” fu possibile vivere, trasformerà così l’impossibilità di vivere “oggi” nella necessità di vivere sempre e in ogni modo.
Il disperato è malato a morte, sostiene Kierkegaard. Kierkegaard parla continuamente, come si sa, di disperazione e, come si sa pure, ha scritto un trattato su di essa. Se l’uomo fosse una sintesi, non ci dovrebbe essere disperazione, egli afferma. Oggi si riconosce comunemente che l’uomo non è una sintesi, eppure non c’è lo stesso disperazione. Comunque, ciò che sostiene Kierkegaard, dovrebbe valere contro Hegel, ma il problema non è di stabilire l’esistenza della disperazione; anche Hegel ne riconosce la nera presenza, per questo come “momento”. Ecco, dunque, il punto: essa per Hegel è un “momento”. Ma anche per Kierkegaard è un momento. Infatti «a Dio tutto è possibile» non significa altro che la disperazione è un momento. Sentiamo pure dire: alla società tutto è possibile o alla storia tutto è possibile; in altre parole, anche qui la disperazione diventa, illico et immediate, un momento.
Colui il quale persegue il cambiamento del mondo (s’intende con questi termini il cambiamento della vita sociale, come sanno tutti: in altre parole, la politica) non parla mai di disperazione. Per la stima corrente, anzi, egli è tutto fuorché un disperato. Ma, come avverte Kierkegaard, alla riflessione volgare «sfugge del tutto che è proprio una forma di disperazione quella di non essere disperato, di non avere coscienza di esserlo». Tuttavia, occorre riconoscerlo, non ci vuole meno della disperazione per risolversi a consegnare nelle mani della negazione quel «sin qui e di qui», pieno di tutti i tesori del mondo, in cui per Hegel si riassumeva l’intera storia del passato. Una volta, per ognuno che tentava di cambiare il mondo (leggi: di migliorare la vita sociale), le evidenze, anche le più care e più sante, della filosofia progressiva non avevano alcun valore. Ad esempio, «Io vivo» è l’ultima parola della filosofia progressiva che vi vede risolti insieme il problema del suo inizio più sicuro e quello del suo scopo più certo. L’«Io vivo» è accompagnato da quella beatitudine che da Socrate ai più importanti filosofi d’oggi (abbiamo visto Scheler) non significa se non questo: solamente colui che è felice potrà volere e agire non soltanto moralmente, ma anche politicamente. Mentre per colui che una volta si disperava per il cambiamento del mondo, quelli a cui si rivolgeva o in nome dei quali parlava erano coloro che meno di tutti al mondo avevano una ragione per vivere che non fosse il solo istinto e ai quali le evidenze di Cartesio o Husserl non avrebbero detto niente. Oggi le cose sembrano alquanto mutate; chi sogna ancora il cambiamento del mondo (o più modestamente il miglioramento della vita sociale) preferisce i felici ai disperati. La possibilità di vivere sembra saldamente assicurata: quello che ci si promette è di restituircela al doppio. Allora, cambiate il mondo e vedrete tutti i guai spariranno? No, mille volte no, la vita resta egualmente impossibile e il ricordo della sua necessità non diminuisce il nostro terrore.
C’è chi si toglie la disperazione come un dente guasto e c’è chi non vi rinuncia per nulla al mondo, ma se la tiene, è stato detto, come la cosa più cara che abbia. Per costui la disperazione è l’unico punto di contatto con la realtà e insieme l’unica cosa che gli dia la forza di richiederne il cambiamento. Ma se la disperazione è solo un momento, una domenica della vita, allora si ritorna al punto di prima. L’epoca è matura per non essere? Presto detto: tutto ciò non è che un momento del divenire. E il cambiamento del mondo? Il divenire stesso.
Col metodo ipocondriaco si conviene che uno soffra tutti i mali del mondo: da questo istante egli può studiarseli con la dovuta calma. Costui, cioè, è capace in virtù del metodo, di soffermarsi su ciascuno di essi come se fosse di un altro. Naturalmente, anche sulle passioni di un altro, come se fossero proprie. Sempre in virtù del metodo. Ben s’intende: va riconosciuto che il metodo ipocondriaco è il metodo della disperazione. Ma, per l’incantevole imperturbabilità del metodo, essa investe, sì, ciò che la circonda come un uragano che tutto abbatte e divelle, ma sempre con la levità di un metodo. Si deve dire, inoltre, che si tratta di un metodo minore, non uso a trattare le grandi questioni o meglio, uso a trattarle attraverso la cruna di un ago: un intelletto sia pure “momentaneamente” disperato. Si potrebbe, in ultimo, aggiungere che si tratta di un moralista o di un “politico” sperimentale che conduce i suoi esperimenti ipocondriaco-politici. Ma cosa vuole, infine, costui? Unire alla politica la malinconia.