Pietro M. Trivelli in Il Messaggero, 20 dicembre 1995, p. 17
Polemiche / Ferrarotti lo accusa di disimpegno. E il filosofo risponde così
Certo non è Manlio Sgalambro, scrittore di filosofia “arroccato” nell’infernale centro della sua Catania, un modello di “socialità”. E come potrebbe esserlo uno che ha scritto (in Dell’indifferenza in materia di società): «Come si pronunciò un tempo, con orrore, “stato di natura”, così mi trovo a dire, con pari orrore, “stato di società”»? Oppure, fin dal suo primo libro, La morte del sole: «Non si può essere reazionari perché non c’è dove tornare; non si può essere progressisti perché non c’è dove andare».
No, non è “pensiero sociale”, il suo, anche se Sgalambro si giustifica col dare alla società assai meno importanza della vita e della morte, del bene e del male, della felicità e dell’infelicità.
Non piace per niente a Franco Ferrarotti, che dello studio della società ha fatto la sua “filosofia”. Nell’ultimo numero della sua rivista, Critica sociologica, in un editoriale intitolato “Intolleranza degli illuminini”, Franco Ferrarotti (che a 69 anni rinverdisce la vis polemica di quando si aggiudicò il primo concorso di sociologia in Italia, nel 1961) va giù pesante contro Manlio Sgalambro. Definendo le sue teorie «opinioni contrabbandate come verità assolute», Ferrarotti scrive di Sgalambro: «Vive in Sicilia ma non ha mai detto una parola contro il fenomeno mafioso». Lo annovera in una «illuminata minoranza di filosofi che cercano il successo con i loro oscuri dettami, il pessimismo programmatico e sprezzante di chi per decenni ha vissuto e vive nel seno della mafia senza dare il minimo segno di accorgersene». E lo definisce «propagatore, attraverso l’approssimazione oracolare, del pericoloso concetto di democrazia come ideale illusorio».
L’inopinata invettiva di Ferrarotti contro l'”appartato” Sgalambro (che, settantenne, si diletta della musica di Franco Battiato, per il quale ha scritto il libretto dell’opera su Federico II, Il
cavaliere dell’intelletto) arriva dopo un suo recente articolo sugli “orrori della verità”, intesa come autorità, anche in filosofia. La mafia non è forse un orrore e una “verità”, fin troppo reale? È vero, come sostiene Ferrarotti, che Sgalambro ci vive in mezzo senza nemmeno accorgersene? «Come essere umano, viscere e fegato, sentimenti ed emozioni – risponde Manlio Sgalambro con linguaggio da Magna Grecia – sono inorridito anch’io dalla mafia, e non posso non indignarmene. Ma, come uomo di pensiero, la mafia non m’interessa. Non mi fa venire alcuna idea in testa. Mi interessa piuttosto come male sociale, che io reputo una specie di spina nella società, non toglibile. Anche la mafia è un aspetto di quello che considero un eterno male sociale. Per questo preferisco occuparmi di mafia metafisica, come male metafisico. Del resto, mi pare che pianga miseria lo stato in cui si trova oggi la riflessione, anche sociologica o letteraria, sulla mafia».
Questo atteggiamento, come dice Ferrarotti, non è antidemocratico? «Credo di vivere il senso della democrazia in maniera disperata – risponde ancora Sgalambro – perché ritengo che, al punto in cui è arrivata, sia un limite della democrazia il fatto che essa non renda ancora possibile il vero scopo del vivere: che per un filosofo è il concetto di verità, per cui non ci può essere una filosofia più vera di un’altra. Soprattutto oggi, chi pensa vive in una situazione di continua tensione ed angoscia, tra libertà e autorità. Tensione in cui la stessa democrazia si contesta da sola, come si era già contestato il concetto di autorità estrema».
Forse è per questo che i filosofi non vanno mai al governo, come voleva Piatone.