La scena immaginaria di un filosofo nichilista

Gigi Giacobbe in Hystrio, n. 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 62-63

Festival

Il divertimento amaro del teatro di Sgalambro

Manlio Sgalambro, il filosofo di Lentini

Nonostante i setti libri pubblicati da Adelphi, ha raggiunto la notorietà scrivendo per Battiato Il cavaliere dell’intelletto su Federico II di Svevia – Filosofo «contro», indifferente alla destra e alla sinistra, ha dedicato a Schopenhauer il suo secondo testo teatrale, in scena a Gibellina e Taormina.

Manlio Sgalambro, 71enne filosofo di Lentini (come Gorgia) ma residente a Catania, ha raggiunto il successo e la notorietà non tanto per i suoi sette libri pubblicati da Adelphi, l’ultimo dei quali è La consolazione,
quanto per essere stato l’autore del libretto dell’opera Il cavaliere dell’intelletto, «un dramma mentale» sulla figura di Federico II di Svevia, musicata da Franco Battiato e rappresentata nella Cattedrale di Palermo e poi a Jesi lo scorso anno. Un’opera intorno alle massime questioni (vita, morte, potere, Dio, immortalità…) che ha incuriosito pubblico e critica e che ha rivelato il pensiero schopenhaueriano di Sgalambro. Un filosofo «contro», che s’indigna perché non vuole essere «governato»; «indifferente» ai moti della destra e della sinistra e che da tempo va ripetendo che «non si può essere reazionari perché non c’è dove tornare» e che «non si può essere progressisti perché non c’è dove andare». E se si è «condannati alla libertà – come diceva Sartre – e le generazioni che verranno dovessero scegliere il fascismo, beh! avranno scelto a partire appunto dalla loro libertà e non vedo che cosa potremmo farci». Chiaro, lucido, nichilista, anti-volterriano. Sgalambro si considera un isolano e la sua Sicilia «non è quella illuministica di Sciascia, ma più demoniaca, impregnata di certi umori».
Recentemente «l’ulceroso, gelido, aristocratico», Sgalambro, ma anche un po’ dandy, e che si esprime per aforismi alla maniera d’un Oscar Wilde, stimolato a scrivere per il teatro da Patrizia Baluci, leader del gruppo messinese «Il diario celeste», ha partorito un testo, Schopenhauer come rappresentazione, che ha debuttato a Gibellina e poi è stato a Taormian Arte e in altre piazze, in una messinscena curata da Alfonso Santagata.

Come spiega il suo interesse per il teatro?

«Da filosofo extra-accademico, non legittimato, scopro la piazza ateniese, l’agorà: e scopro che scrivendo i miei guai trasmetto la mia visione».

Che rapporto c’è tra filosofia e teatro?

«Il teatro è una sfida dolente. Perché si possa avere un teatro di pensiero, occorre che, insieme ai 200-300 versi che il testo contiene, vi sia l’attore che possa essere il tramite per scoprire appieno la dimensione del filosofare, della risposta alla domanda: il teatro può essere un dispensatore di risposte, più che un’officina di soli problemi».

Cosa è stato per lei il teatro, prima che scrivesse per Battiato il libretto dell’opera Il cavaliere dell’intelletto e, adesso, questo Schopenhauer come rappresentazione?

«Il teatro era una mia passione letteraria, mi riferisco ai classici, dove il linguaggio può dire audacia verbale e in cui l’espressione diventa sanguigna, come in Seneca ad esempio».

Qual è il teatro che privilegia?

«Sono stato un lettore blando: a me piace il teatro ridondante, pieno d’azione verbale, quello seicentesco in particolare».

Cos’è il teatro per lei?

«Il teatro è una singolare sede in cui si mostra lo sdoppiamento, l’equazione della realtà, come se si spogliasse un carciofo che non finisce mai».

Perché ha scelto di scrivere un testo su Schopenhauer?

«Schopenhauer mi è parso come una maschera teatrale, che in qualche modo doveva essere riscoperta dal di dentro: una specie di Matamoro. Ed è col piglio di Schopenhauer che io recito in questo spettacolo».

C’è una certa identificazione fra lei e Schopenhauer?

«Trattandosi di questa materia strana e curiosa che è la filosofia, ho giocato a rimpiattino con il personaggio. Così ogni tanto compare anche Sgalambro, ma in maniera schietta, più di quanto avrebbe potuto fare scrivendo un saggio».

Come giudica queste sue due esperienze teatrali?

«Sono state due esperienze buone da un punto di vista tecnico. Quando ci si muove come un sonnambulo si riesce a passare attraverso i letti senza capitombolare. Così, io non mi sono preoccupato di come questi lavori dovevano essere fatti: piuttosto, li ho fatti, con una sorta di nonchalance interiore. Un divertimento, anche se nel caso di Schopenhauer è un diventimento amaro.

Perché «divertimento amaro»?

«Mi sono calato nei panni d’uno Schopenhauer che per me rappresenta quella che avrebbe potuto essere la filosofia europea. In altre parole, il filosofo tedesca rappresenta una filosofia che ha avuto seguito, non nel senso che non esistono degli schopenhaueriani, ma in quanto non si è andata sviluppando una vera e propria «lotta per il pessimismo», per dirla con le parole di un suo seguace. Per questo mi pare un personaggio molto adatto per il teatro».