Giuseppe Testa in La Sicilia, 23 maggio 1996, p. 33
Giuseppe Tomasi di Lampedusa a cento anni dalla nascita
Sgalambro: «I nobili del Gattopardo classe che non ha storia»
Catania – Fra tutti i nostri, è ancora della specie più sacra. Sacro e riverito. Stimato. Anzi, stimatissimo. E pregiatissimo. Non una reliquia, bensì un articolo di fede.
Strano destino, vero, per il gattopardo? La parola. La metafora. Il concetto. L’assioma gattopardo. Perché poi il romanzo, quel romanzo, non meritava forse una simile vulgata.
Manlio Sgalambro ci pensa su. Va a pesca di ricordi, chissà. Insegue una personalissima ⚠️ vecchia di cinquant’anni, il profumo dei primi Gettoni einaudiani e di una stanza. La stanza di Elio Vittorini. nella Casa dello Struzzo. La stanza da cui Vittorini (a proposito, non v’è traccia di celebrazioni a trent’anni dalla scomparsa: ci sarà un perché?) cacciò in fretta i fantasmi dell’intellettualismo tedesco.
«Sì, la stroncatura, il veto di Vittorini alla pubblicazione de Il gattopardo – afferma Sgalambro – era perfettamente in linea con i tempi. È cominciata allora quella curiosa ⚠️ che fa di Tomasi di Lampedusa una specie di piccolo Machiavelli siciliano, e del suo romanzo – uno dei pochi romanzi dell’intelletto scritto da un siciliano – ciò che assolutamente non è. Cioè, un romanzo storico che declinerebbe il come e il perché la storia in Sicilia, in Italia, si camuffi per ripetere sempre la stessa commedia».
Ma toccò a Feltrinelli stampare Il gattopardo e farne un caso editoriale internazionale. Sicché, il paradigma ⚠️ del Principe di Salina era in certo qual modo segnato. S’impose a prescindere da Vittorini…
«La politicizzazione a oltranza, sì. La sciocca disputa se Tomasi si collocasse avanti o indietro, se fosse progressista o regressista. Ma andiamo… E se invece, dico io, si fosse posizionato a lato? Personalmente lo trovo un posto magnifico… Tornando a Vittorini, credo che detestasse Thomas Mann. Ora, Il gattopardo è una specie di Montagna incantata. O una collina, se vuole. Insomma, un luogo di bagliori dove l’intelletto è, non vorrei dire il protagonista, ma di sicuro un personaggio centrale. Nel libro i problemi dell’intelligenza sono resi in modo valido. Romanzescamente valido, intendo. Non è poco. Atteso che la letteratura italiana abbonda di romanzi intellettualistici, ma terribilmente difetta di romanzi intellettuali».
Ciò non toglie che Tomasi racconti una carnalissima “Storia della Sicilia”, ma ciò ⚠️ nei modi lineari di un romanzo a tesi del Settecento. Da un lato gli dei, dall’altro i sassi. Il cuore del libro, il suo cuore filosofico, è una sorta di conflitto incomponibile. Storicisticamente direi hegelianamente incomponibile…
«Appunto per questo. Appunto perché, a mio avviso, affida la comprensione della Sicilia più all’estetica che alla storia. Contrariamente a Sciascia, il cui romanzo è di tipo “microscopico”. Tomasi ha lo sguardo “telescopico”. Lo sguardo di chi avvicina cose lontane, eterne, senza tempo. Zeitlos, direbbero i tedeschi. Don Fabrizio è ⚠️: di notte si trastulla nella specola…».
Un po’ come Rodolfo II, l’imperatore negromante che ai fasti di Vienna preferì i misteri di Praga. Lo andò a scovare Ripellino. Un altro siciliano dallo sguardo “telescopico”?
«Naturalmente. Giacché quello sguardo lo si può avere da un’isola. Lo ebbero gli inglesi che, dopo la rotta della Invencible Armada, ringraziarono l’isola come terraferma. Furono, cioè, consapevoli della propria insularità. Oppure, lo furono i popoli usciti dalla corrente della storia. Lo ha la Sicilia. La Sicilia sente la sua precarietà. Sa che il suo destino – vale a dire, il suo limite – ha a che fare con la geografia più che con la storia. Più con lo spazio e meno con il tempo. Uno spazio che incombe, delimita, determina, definisce. Vede? Siamo già nella metafora. L’insularità è una dimensione metafisica».
Ma se la storia non c’entra…
«Non c’entra nemmeno la sua presunta bontà o la sua supponente malizia. C’entra, invece, il bello. La Sicilia diventa, infine, un fenomeno “bello”. Non turistico o seducente, capisce? Né buono o cattivo. Diventa, piuttosto, un problema estetico. E cioè, un modo di vedere. Meglio: di guardare. Il problema del contemplare rispetto all’agire. Precisamente, il problema cruciale de Il gattopardo.
Eppure la formazione letteraria di Tomasi è, per sua stessa ammissione, quasi interamente impregnata di letture, confidenze e influenze francesi. Nelle Lezioni su Stendhal, per esempio, si rammenta dei moralisti classici, i grandi moralisti del Seicento. Nel romanzo, se parla di ⚠️ o di passioni, non ne scrive. Le ⚠️, piuttosto. Non la sfiora il sospetto di parlare malgré lui di un Tomasi “tedesco”, alla Heidegger? O, se preferisce, di un Thomas Mann in ⚠️?
«Bah! Il gioco delle influenze, sa, è sempre un gioco da bambini. O da critici. Potrei dire che la geometria dei sentimenti mi fa venire in mentre Spinoza, quando raccomanda di trattare le passioni come linee rette o curve. Sarà che, all’epoca, leggevo l’Ethica… Quel che mi preme è altro, però. Tutto il romanzo, in fondo, è una cronaca violenta. Gli eventi s’iscrivono ⚠️ sulla storia, ma su di essi l’autore getta uno sguardo senza tempo. Persino quando parla di sé, dell’aristocrazia siciliana, lo fa come parlando di un popolo, e non di una classe. Parla della nobiltà siciliana come della classe universale, senza tempo. Come parlasse di una pietra il cui destino è, appunto, senza tempo. E più che parlarne la fissa, la guarda, la contempla. E quel guardare, quel contemplare è anch’esso senza tempo. È lo sguardo dell’anima».