Morando Morandini in Il Giorno, 21 maggio 1995, p. 17
Sgalambro scuote principi e certezze con un provocatorio pamphlet
I veri filosofi sono «naturalmente» comunisti, scrive il pensatore siciliano
Altro che «pensiero debole». Il ragionamento che Manlio Sgalambro espone nelle quaranta paginette di Dialogo sul comunismo è tragico. Per lui, intrepido viaggiatore del sistema solare, la fine del mondo è il più grande fatto etico della storia dell’uomo e il comunismo è il legame solidissimo che si crea tra uomini sull’orlo di un abisso, nella prospettiva della catastrofe conclusiva.
Per colui il quale il mondo è finito e le stelle si stanno già spegnendo, stringersi all’altro, abbracciarsi in un addio lunghissimo, ma inevitabile, è il perno della vita etica: nella comune contemporaneità alla fine del mondo gli uomini diventano una comunità di morenti. Perciò, indifferente alle insulse differenze dell’apparenza sociale e all’idea balorda di una società migliore, Sgalambro trae l’idea di comunismo non dalla storia, ma contro la storia, da un’altra parte. E può concludere: «lo sono un comunista disperato».
Tratta da Kant, quest’idea della fine del mondo – e della necessità di essere, di vivere contemporanei a questa fine – è di continuo ribadita nel dialogo che conduce con un amico, «Si filosofa per salvare gli amici». Si possono non condividere gli argomenti, respingerne i paradossi (I veri filosofi sono naturaliter comunisti», oppure «Il comunismo è il punto di arrivo del pessimismo occidentale», oppure «Non chiedere se l’esistenza ha un significato, ma se lo ha l’esistenza del genere umano».
Sembra difficile, però, non rimanere ora affascinati ora scossi dalla limpidezza icastica della sua prosa, di un discorso che passa senza pedanteria per Platone, Socrate, Pitagora, Agostino d’Ippona, Paolo di Tarso, Plotino, Bruno, Lutero, Campanella, Cartesio, Malebranche, Spinoza, Hegel, Marx, Schopenhauer, l’adorato Bossuet, Schmitt, Husserl, Spengler, Horkheimer, Weber, Keyserling, non senza citare Omero, Shakespeare, lbsen, Wedekind.
Pessimista, disperato, ma sempre lucido e dialettico è Sgalambro con lampi di ironia, come quando sostiene per i filosofi il dovere di essere pericolosi: «Quando Socrate beveva la cicuta e Bruno e Vanini bruciavano sul rogo, le cose andavano bene per la filosofia… Mentre oggi la stessa essenza “criminale” della filosofia non è più nemmeno un ricordo».
Come quando, nell’analizzare la nozione (così ristretta e umiliante) di verità, asserisce l’incompatibilità tra democrazia e verità («Fanatico è qualsiasi filosofo che ha una visione del mondo»). Come quando se la prende con i libri («… la lettura diventa innocua in proporzione alla quantità dei libri. Più libri si pubblicano, più l’atto di leggere perde la sua aura»), o con la scuola, il cui compito è di produrre individui mediocri e mal formati, abbassare l’intelligenza e insegnare a stare tutti appiccicati insieme, mentre – ma la sua è una debolezza da utopista, confessa – dovrebbe insegnare a chiamarci col giusto nome: morenti, non viventi.
Fortunatamente la scuola reale è il vaccino per il male che inocula, una barriera opposta al male del sapere. La conclusione? Soltanto un regresso organizzato, un sano ritorno dei più all’ignoranza può condurre al comunismo. Sgalambro ribadisce il chiodo dell’etica della catastrofe in cui la classica domanda «che devo fare?» si colleghi con la vita minacciata. «Immagino una comunità di uomini inflessibili e potenti… i quali non avranno che una sola etica: “valere”, non “essere”.
Manlio Sgalambro, Dialogo sul comunismo (De Martinis & C., 49 pagine. Catania).