Giuseppe Testa in La Sicilia, 25 novembre 1994, p. 28
Nostra inchiesta sulla cultura della nuova destra: parla il filosofo Manlio Sgalambro
«Dove sono i profeti? Vedo solo tecnologi»


«Dov’è quel che i tedeschi chiamano modernismo reazionario? Non vedo ideologi, ma dei tecnocrati che cercano d’inoculare nella società italiana elementi di liberalismo»
Catania – «Destra? Bah, non esageriamo. Questa qui è, piuttosto, una destruccia. Dove sono i profeti? Dov’è quel che i tedeschi chiamano “modernismo reazionario”? Non vedo ideologi, no. Tutt’al più, dei tecnocrati che cercano confusamente d’inoculare nella società italiana elementi di liberalismo». Il giudizio del filosofo è talmente impietoso che la chiacchierata con Manlio Sgalambro potrebbe finire qui.
Se non che parlare di destra, e di cultura di destra poi, proprio con lui, può riservare, comunque, sorprendenti provocazioni, e cioè: rari distillati di proficue eresie. Grande eresiarca e demistificatore d’ogni divinità, e per ultimo del culto, del feticismo della e per la politica (da un mese è in libreria il suo acidissimo pamphlet «Dell’indifferenza in materia di società»), Sgalambro procede, come il solito, per argomentazioni e, più spesso, per aforismi micidiali. Ma si capisce che sono il sugo avvelenato di abusate frequentazioni con testi sacri, profani e perfino apocrifi.
Lei sostiene: la nuova destra tenta di dare una patina di liberalismo alla società italiana. Vuol dire che l’Italia non è mai stata una società liberale?
«Voglio dire qualcosa di più. La situazione italiana, in perfetta sintonia, credo, con quella mondiale, è più o meno questa. Per un secolo e mezzo si è perseguito il sogno progressista, o illuminista, o socialista: che dir si voglia. Ma un sogno così a lungo sognato, e così imperfettamente realizzato, non si può sognare all’infinito. I socialismi sono costosi, sa? Sono come le cocotte che rovinavano i borghesi dell’Ottocento. Ora, anche Cuba, l’ultima cocotte di lusso, s’è avvizzita, sfatta. Non ci sono più soldi, per dirla con il mio droghiere. Cadute le basi dello Stato sociale, c’è bisogno di un altro periodo di accumulazione».
Ma il socialismo in Italia non è mai stato al potere…
«Sarà, ma abbiamo avuto anche noi il nostro socialismo reale. Ed era, ed è la pace sociale. Che a garantirla fossero governi di centro, centro-destra o centro-sinistra. democristiani o demo-socialisti, è del tutto ininfluente. La pace sociale è il nostro socialismo reale. l’unico possibile in questo Paese. A me pare che la destra al governo abbia precisamente l’obiettivo di rompere la pace sociale. Il suo avversario non è D’Alema né il sindacato, è la pace sociale in re. Appunto, il socialismo reale. Sicché, mentre l’anti-progressismo dei progressisti classici si riassume nella diffidenza verso la tecnica e la tecnologia (basti por mente a certo esasperato ecologismo), l’elemento anti-progressista della nuova destra è invece il rifiuto della tecnica dei rapporti umani. Per esempio, la ripulsa verso l’organizzazione della salute, l’ospedalità pubblica. Ora, non credo che si tratti di un fatto puramente economico. poiché dall’esito della sfida dipende l’esistenza stessa del nuovo ceto politico».
Dunque, siamo in presenza di un fenomeno più vasto, di un fenomeno culturale, seppure allo stato nascente, embrionale?
«Al momento, mi sembra, ogni elaborazione di tipo culturale è assente. Quanto ai cascami della vecchia destra italiana, come il corporativismo, quanto a certi polverosi numi, come Evola, sono ingessati, del tutto inadeguati alla situazione presente. Si cambia casa e ci si porta appresso i penati, tutto qui. Non scorgo tracce del grande pensiero reazionario europeo. Chi può incarnare oggi il concetto di sovranità così com’è espresso in De Maistre? E l’eroismo jüngeriano? Non parliamo, poi, di Heidegger. Via, non scherziamo! Il grande pensiero reazionario fu una cosa seria. Prendiamo il metodo dialettico: Marx stesso, in una delle prefazioni al Capitale, dice che è stato strappato ai legittimisti, ai monarchici. Ma oggi? Non c’è che una parata di grandi mallevadori ai quali fumano i mustacchi. Quel che ci vuole è ben altro».
E sarebbe?
«Beh, recuperare il significato della vita, se mi è consentito esprimermi così. La grande destra… nazismi… I nazismi, sì. Perché tanta paura di ammetterlo? Erano truculenti i nazismi, ma si presentavano come grandi rotture, cesure titaniche. Bisogna sapere che l’obiettivo del nazismo, il vero obiettivo, era la distruzione del cristianesimo, mica lo sterminio dei giudei. Non si tratta di approvare o di demonizzare. Si tratta di capire che la grandezza, l’eroismo di quei progetti viene sostituita oggi da discorsi idioti sulla crisi dei valori. Ma chi ha detto che i valori sono in crisi? È che sono diventati cose. E quando i valori diventano cose, puzzano maledettamente».
Qual è, quale potrebbe o dovrebbe essere, il grande progetto della destra europea alle soglie del secondo millennio?
«Una nuova critica della democrazia occidentale. Noi sappiamo che per amministrare il mondo, di qui a cinquant’anni, ci vorrà un balzo inaudito dei redditi nazionali. Sappiamo che in alcune megalopoli, come Tokyo o Città di Messico, la popolazione raddoppierà in una o due generazioni. Allora, la domanda è: come si possono guidare democraticamente queste città, quei Paesi? Ci vorranno delle democrazie apparenti. Anzi, per dirla tutta, ci vorrà una democrazia totalitaria».
Che cosa intende esattamente con “democrazia totalitaria”? Detto così, il concetto è un sinistro paradosso…
«Sì, è un ircocervo, me ne rendo conto. Eppure, io credo che nessuno abbia affrontato adeguatamente il problema del totalitarismo nella e della democrazia. Per tornare al nazismo, si pensi solamente al ruolo della radio nella creazione di quel fenomeno di massa. La radio – non la propaganda, si badi – no, proprio la radio, il mezzo radiofonico, creava degli aggregati, dei “tutti”, per così dire, perché riusciva a esprimere concetti reali mediante strumenti politici adeguati…».
È un fenomeno abbondantemente studiato: fra gli altri, dallo storico tedesco Mosse, se non erro. Ma, tornando ai nostri giorni, lei vuol dire che la battaglia per il controllo dell’informazione, alla quale assistiamo ammutoliti, risponde forse a qualcosa che va ben al di là del problema del dare o del togliere una o due reti televisive, qualche giornale, a Berlusconi?
«Direi proprio di sì. Il nodo è questo, comunque. La democrazia apparente. La democrazia che si apparenta a forme di totalitarismo. Per poter assistere dieci miliardi di persone servirà un reddito mondiale altissimo. E questo dovrà essere accumulato a un certo livello: ci vorrà qualcuno che si occupi della questione. Finché l’obiettivo non sarà realizzato, io credo, andremo verso democrazie che privilegiano più i sistemi di sicurezza che non i mezzi di assistenza. Perché è chiaro che i due termini sono antitetici, È chiaro che. se aumenta l’assistenza diminuisce la necessità di sicurezza, e viceversa. Ho letto di Arafat, di recente: ha chiesto altri cinquecento poliziotti per controllare i suoi palestinesi. Mi sono domandato cos’altro potrebbe fare».