Gianfranco Morra in Il Giornale, 19 novembre 1994, p. 14
L’ultimo libro di Sgalambro
In un libro avvincente sino alla paranoia convincente sino all’assurdo, indisponente sino al rigetto, Manlio Scalambro svolge, con dovizia di cultura e avvenenza di stile, un unico tema: che solo l’Io esiste, che l’Altro non deve esistere, che la Società e un delitto contro l’uomo (Dell’indifferenza in materia di società, Adelphi). Dove c’è l’Io non può esserci la Società e dove c’è la Società l’lo viene assassinato.
Cartesio lo aveva capito, col suo «cogito». Ma si era fermato a metà, da buonpensante qual era, tanto che dall’Io aveva dedotto ciò che non avrebbe mai dovuto: gli altri, la natura, Dio. Sgalambro non è così sprovveduto e (anche se già lo aveva fatto, giusto 150 anni or sono, Stirner col suo Unico) va sino in fondo «L’offesa che mi procura l’esistenza dell’altro. Io ne deduco che sarei dovuto esistere solo»; «Dire Io è affermare: tutto è mio»; «Io sono; io solo sono (anche se “esistono” gli altri); io solo devo essere; tutto è mio (anche se non “ho” nulla)».
In tale solipsismo non c’è spazio né per gli altri, né per la società. Per il semplice fatto che esistono, gli altri sono una minaccia e una offesa. E non v’è spazio per la politica: «la più stupida attività a cui si siano mai dati gli uomini. Più aumenta la socialità, più aumenta la stupidità». Essere governati, ecco l’assurdo. Per uomini liberi è uno scandalo, per i minorati mentali (la maggioranza) è una necessità; ma i governanti, questi «ultimi uomini» (Nietzsche) la pagano cara, dato che vengono assimilati a quei folli e immaturi cui impongono il loro volere.
Inutili, allora, tutte le utopie di una società migliore. Sgalambro disprezza l’illuminismo e il socialismo insieme con il loro mito più ridicolo: il progresso verso il meglio (Kant). Non c’è movimento, ma Verità (Parmenide); non c’è storia, ma eterno ritorno (Nietzsche); non c’e aliter, ma semper idem (Schopenhauer); non c’è liberta, ma necessità (Spinoza) e «amor fati» (Nietzsche), dato che la Verità non si sceglie, ma si subisce. È quanto Sgalambro capisce e annuncia; ma i più vivono, stolti e ciechi, nella illusione del divenire e della pluralità. È la posizione gnostica: pessimismo cosmico (l’essere è male e il mondo non dovrebbe esserci) e salvezza nella gnósis dei pochi che sanno, come Sgalambro, che l’Essere è per la morte («non mi sono mai rassegnato a essere nato»).
La salvezza è nella solitudine, come per Epicuro (ma senza la sua esaltazione dell’amicizia; se esiste solo l’Io, come è possibile l’amicizia?); o nella apatia, come per gli stoici (ma senza la loro accettazione religiosa della prónoia).
Con tutto ciò, Sgalambro non dice che la società va distrutta, ma solo che va a tal punto disprezzata da considerarla indifferente. Lo gnostico, come il suo «Dio straniero», ci vive senza viverci: «La politica resta quel minimo indispensabile a cui una banda di canaglie e di miserabili, incapace di autogovernarsi e decidere, delega la propria salvezza. L’avversione per le cose della politica è parte del mio spirito».
Il ragionamento di Sgalambro è troppo logico per essere vero, troppo radicale per essere credibile, troppo originale per essere originale. La critica del solipsismo di Sgalambro è già nel fatto che egli scrive un libro: per chi? Per sé? Non ne ha bisogno; per gli altri, «merce all’ingrosso della natura» (Schopenhauer)? Non lo capirebbero. Per alcuni «eletti» come lui? Se fosse così, non avrebbe più senso il solipsismo ed esisterebbe una «società degli eletti», pochi e illuminati, gli sgalambriniani.
Meglio, allora, accettare la provocazione dell’autore, nel nostro tempo di conformismo e di ciarlataneria, come la demitizzazione del miti progressisti e socialisti della nostra cultura, nella quale per troppo tempo tutto è stato sociale e nella quale, per reazione, tutto è divenuto individuale.
La società (con la minuscola) non è né una Divinità che siamo costretti ad adorare e a placare con sacrifici; né un Mostro dal quale dobbiamo fuggire e difenderci. Il rifiuto del socialismo non deve avvenire nel solipsismo, ma, come ha mostrato Alain Laurent nella sua breve Storia dell’individualismo, da poco tradotta dal Mulino, in un primato del Singolo che non escluda né gli Altri né la Società.
Il solipsismo di Sgalambro, invece, non è l’alternativa al sociomorfismo della «cultura della resa», ma solo il suo capovolgimento dialettico, incapace di vedere, oltre l’immagine detestabile o avvilente di una società aggressiva e oppressiva, quella «societas in interiore homine» (Gentile), nella quale soltanto possiamo essere pienamente noi stessi.