Paolo Miccoli in L’Osservatore Romano, 19 novembre 1994, p. 3
Filosofia. A proposito del recente pamphlet di Sgalambro
Ci provoca alla riflessione un minuscolo pamphlet di Manlio Sgalambro, Dell’indifferenza in materia di società, edito da Adelphi.
Il tenore dello scritto è tale da richiamare l’indignazione oraziana nell’ispirazione dei suoi versi o talune invettive dello Zarathustra nietzscheano, o, infine, se si vuole, i sarcasmi pungenti di Karl Kraus.
Con questa recente pubblicazione l’autore conferma i tratti della sua personalità filosofica e letteraria, consegnata ai precedenti scritti.
Ed è personalità che irride a scuole e a maestri di vita, osserva con cipiglio altero e mordace il costume sociale corrente, ama il solipsismo riflessivo ed esistenziale, toglie di mano la teologia ai teologi per gestirla in senso ultra-razionalistico e ateo.
Due livelli di scrittura
A scanso di equivoci e di superficialità, va detto, per chi non lo conoscesse, che Sgalambro è tutt’altro che sprovveduto nel campo della cultura filosofica. Conosce e pratica i grandi nomi della filosofia antica, medioevale e moderna con rara perizia filologica e con vigile esegesi, anche se la sua voce si fa sentire al di fuori delle accademie e delle conventicole culturali blasonate. Le sue invettive lasciano il segno della collera teoretica, deludono i lettori dal gusto estetico e filosofico ammansito. Per lo più i suoi interventi hanno calibratura di discorso breve su questioni ardue e complesse che richiederebbero, invece, lunghe riflessioni e grossi tomi.
È il caso del pamphlet che abbiamo sottomano, dove, in 90 pagine, si susseguono 29 brevi riflessioni «in materia di società», nel segno dell’indifferenza.
Il volumetto può essere letto chiaramente a due livelli: a quello di riscontro scientifico e dialettico su tutto ciò che vien proposto in fatto di denuncia sociopolitica ed etico-religiosa, per cui l’argomentazione contraria dovrebbe articolarsi con robusto impianto speculativo, oppure a livello di confronto immediato, opponendo alle opinioni dell’autore convincimenti di ben altra ispirazione filosofica e sociale.
Scegliamo questo secondo livello di lettura per consegnare al pubblico le nostre impressioni.
Vi sono molte ragioni che fanno sottoscrivere alcune tesi dell’autore.
E sono: la loquacità nebulosa e la leggerezza riflessiva con cui si affrontano oggi problemi seri dell’uomo; la chiacchiera ermeneutica che tende a nascondere in vano il vuoto filologico e storico-critico di tanti scribacchini prezzolati; la mediocrità di una società che ha impostato il senso della vita sull’utilitarismo pratico e sul volontarismo teorico, perdendo l’occasione di capire che la nostra potrebbe essere davvero «un’epoca teologica» (p. 12); infine, per tacere di altre tesi, il fatto che la politica confonde intenzionalmente, a scopo di quieto vivere, la verità pugnace con la tolleranza compromissoria e menzognera.
Una strana «verità»
Sgalambro entra subito nel vivo del discorso. Sostiene le sue tesi con l’ispirazione di tre filosofi: Cartesio, Spinoza, Schopenhauer. Dal primo motiva il criterio dell’evidenza per puntellare l’avversione e l’indifferenza (ma è pur sempre indignatio!) nei confronti dello «stato di società» che siamo costretti a subire. Dal secondo trae l’ardire di una costruzione razionalistica del teorema sociale, dal terzo attinge coraggio per disprezzare gli altri.
Attardarsi sulle note di costume non è affare del pensatore stoico: questi può persino ridere di tangentopoli e di taluni «spettacoli» parlamentari… V’è qualcosa di più da rilevare filosoficamente: ed è la stupidità dell’illuminismo che continua ad alimentare la civetteria degli uomini di scienza, di potere, di economia. Alle illusioni ideologiche, Sgalambro oppone il realismo dubbioso di Charron che riteneva il popolo «una bestia strana dalle molte teste» (p. 32), con il atteggiamento, allora, vivere in città, ossia esprimere la vita «politica»? La risposta dell’autore è la seguente: la società, da un punto di vista pratico, va subita, per non andare incontro a rischi e a gravami fiscali…; dal punto di vista teorico lo spirito stoicheggiante nega semplicemente l’altro, affermando in maniera assoluta il proprio io.
A più riprese Sgalambro afferma il dritto del solipsismo e confuta la vita sociale con questo e consimili argomenti: «Ritengo inalienabili i diritti del solipsismo. Semplicemente, ahimè, l’altro esiste. E da qui che nasce questa estrema confusione che è la vita sociale» (p. 49). Da questa premessa teorica è facile intuire le conseguenze che ne derivano. L’autore dichiara di aver «fatto voto di verità» e di mantenersi fedele al suo ideale. Depotenzia la libertà, in quanto la considera invischiata nel gioco passionale della politica che ottunde. Una strana verità, quella di Sgalambro: totale come il sistema di Spinoza, monologante come gli stoici di ogni tempo!
Nella scia di Nietzsche
Si comprende, pertanto, la «coerenza» di chi si isola teoreticamente e pretende di pensare e di vivere nell’indifferenza verso gli altri, ossia verso quel fantasma culturale che si chiama società. Sebbene
autore non nutra buon sangue nei con fronti di Nietzsche, ne ripete qualche motivo antisociale: basti ricordare «Del passare oltre» che si legge nello Zarathustra.
In tal senso la lista degli stoici a braccetto potrebbe essere cospicua: Kraus, Evola, Ceronetti, ecc… Al fondo del loro rimuginare pensieri in maniera solitaria c’è lo schema ciclico della storia: tutto si ripete eternamente, con in più il fatto – chiosa Sgalambro – che tutto ritorna depotenziato e imbecille (pp. 61-62), attesa la forza di persuasione della moda e dei mass-media.
Opuscoli come questo possono servire ad alimentare lo sdegno di chi si guarda attorno e constata ipocrisia, corruzione ed egoismo. Servono anche a rendere più responsabili i protagonisti del pensiero filosofico
Ma non sono certamente strumenti di educazione dell’uomo. È stato proprio Sgalambro a farmi riprendere in mano un significativo scritto di F. Schiller sulla figura di Solone: personaggio dell’antica Atene, a cui vengono riconosciuti pregi e difetti in ordine all’arte di governare. È significativo che in tutto lo scritto schilleriano in questione serpeggi il tema della difficoltà di mantenere in equilibrio sia la società come anche il singolo cittadino. Qualcosa occorre lare. «Solone odiava e combatteva… l’indifferenza per la cosa pubblica» (Schiller).
Vanità del solipsismo
Preoccuparsi di suggerire elementi propositivi di educazione sociale e civile, al di là della denuncia dei mali che affettano l’uomo nel suo intimo e nelle relazioni sociali, è dovere di chi si sente corresponsabile della vita pubblica. La storia ha dimostrato ad ufa che non si può essere stoici e solipsisti ad oltranza: si trasborda in scetticismo o in coscienza infelice, con ulteriore aggravio per l’umanità, di cui ciascuno di noi è membro attivo e compartecipe. Nessun uomo è un’isola, ha scritto Thomas Merton. Il discorso che riesce incisivo è quello che fa carico al filosofo di stare in società con coscienza vigile, a tutela dei valori e a biasimo del male che si commette. Maritain ha scritto pagine memorabili in tal senso.
E non è senza significato che proprio in questi giorni Giovanni Paolo II, uomo che porta sulle spalle il fardello dell umanità intera come Vicario di Gesù Cristo, abbia esortato gli sfiduciati a «varcare soglie della speranza» al consumarsi del secondo millennio della civiltà cristiana. Proprio il contrario di chi non spera e non vuol varcare nessuna soglia per riconciliarsi con la società, pago della marmorea indifferenza sociopolitica che si consuma in una mente «esiliata».